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Gesù è davvero risorto?

La tentazione è credere che il fatto non ci riguardi. Che la sola cosa importante, dopotutto, sia il messaggio di Gesù e che la ragione non possa spingersi oltre un certo limite. In realtà, insegna Pascal (1623-1662), «il passo supremo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la trascendono» [1]. Sarebbe dunque superficiale – e umiliante per la ragione stessa – sottrarsi a priori ad un’indagine sul pilastro primo della fede cristiana, vale a dire la risurrezione di Gesù. Non che il resto non abbia alcuna importanza, intendiamoci, ma fu primariamente quell’evento il centro della fede delle prime comunità cristiane [2], evento che costituisce anche il punto sul quale – direbbe Dostoevskij (1821-1881) – l’«uomo colto», l’«europeo dei nostri giorni» è chiamato a valutare la possibilità di poter «credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo» [3].
Diversamente, annotava già San Paolo, «se Cristo non è risorto vana» è la «fede» [4]. Al punto che se si volesse riassumere il contenuto della fede cristiana in un’unica frase – osservava Romano Guardini (1885-1968) – si potrebbe dire tranquillamente questo: «Credo nella resurrezione dei morti e nella vita» [5]. La risurrezione come questione centrale, dunque. Questione che deve essere anzitutto sottratta a quel silenzio a causa del quale, per dirla con Yves Congar (1904-1995), non se ne parla più o quasi [6], e poi valutata senza imbarazzo anche sotto il profilo della storicità dato che «tutto nel Cristianesimo è storico» e la stessa fede «non aggiunge qualche cosa “in più” che non ci sia nel fatto, ma accoglie il fatto o l’evento, integralmente» [7].
Di qui la domanda che ci siamo posti in apertura: la risurrezione è una favola oppure no? E’ un’antichissima leggenda metropolitana oppure un «evento effettivamente accaduto» [8]? Trattasi di quesiti, insistiamo, della massima importanza dal momento che, com’è stato già osservato, dubitare della storicità della risurrezione non significa dare scarsa importanza ad una fase della vita di Gesù, no: significa mettere apertamente in discussione la sua stessa natura divina, il suo essere Figlio di Dio [9]. Siamo pertanto di fronte ad un bivio cruciale: o Gesù è risorto in quanto Figlio di Dio – e quindi il Cristianesimo, in sostanza, è integralmente vero – oppure è tutta una colossale illusione: tertium non datur. O tutto, o niente.
I Vangeli e la risurrezione che non c’è
Il punto di partenza obbligato per affrontare questo dilemma, ancora una volta, non possono che essere loro, i Vangeli, quattro testi che totalizzano 64.327 parole greche di cui la Chiesa, anche in occasione del Concilio Vaticano II, ha rivendicato «senza esitazione la storicità» [10], e che contengono la grandissima parte delle informazioni che abbiamo su Gesù; al punto che è stata osservata l’impossibilità di scindere il cosiddetto “Gesù storico” dal Gesù narrato nei vangeli [11]. Lo spazio ci impedisce, qui, un approfondimento sull’attendibilità storica dei vangeli, per cui ci limitiamo, confidando nella clemenza del lettore,  ad un’analisi più generale. Analisi che, a proposito di risurrezione, potrebbe iniziare dalla sottolineatura di un dato curioso eppure, di solito, poco considerato: i Vangeli – il primo dei quali, Marco, composto appena dieci anni dopo la morte di Gesù [12] – non la descrivono. Proprio così: nessuna testimonianza diretta [13]. Non per nulla questo dato di fatto viene spesso strumentalizzato da certo ateismo militante per accusare i credenti nel Risorto di essere creduloni. Immaginiamo, al riguardo, la soddisfazione con la quale il matematico Piergiorgio Odifreddi, mosso dal consueto piglio provocatorio, ha fatto per l’appunto presente che la risurrezione «nei Vangeli non c’è» [14], tentando così di far passare per ingenui quanti credono che Gesù abbia davvero vinto la morte.
In realtà è chi prende per buona questa critica a peccare di ingenuità. Vediamo perché. Ora, al di là di quello che affermano Odifreddi e compagni, nei Vangeli  – escludendo Giovanni – di risurrezione si parla, eccome se se ne parla: almeno 11 volte (Matteo: 16,21 17,22 20,19 26,32 e 27,63. Marco: 8,31 9,30 10,34 12,96 e Luca: 18,33), senza contare che in tutto il Nuovo Testamento i termini indicanti la risurrezione – eghiero e anastasis – ricorrono almeno 100 volte. Il punto, come dicevamo poc’anzi e com’è stato più volte osservato, è che a «tutti gli autori del Nuovo Testamento», non è mai venuto in mente neppure «di azzardare una cronaca dell’evento di risurrezione» [15]. Un dato, questo, che dovrebbe far riflettere, in particolare coloro che dubitano della serietà della narrazione evangelica: perché mai, se quei testi sono menzogneri, i suoi redattori si sarebbero dovuti trattenere, pur nominandolo, dal descrivere il miracolo dei miracoli, quello sul quale si fonda tutto il resto? Non avrebbe avuto molto più senso, in chiave apologetica, una cronaca – magari condita con effetti speciali, prodigi e colpi di scena – di Gesù che se ne esce vittorioso dal sepolcro? Perché mai, insomma, questo silenzio?
L’interrogativo è di quelli importanti, anche perché tutto si può dire tranne che quei giorni, nella narrazione evangelica, siano stati poco considerati: per dire, nel vangelo di Marco – il più antico – ben 107 dei 658 versetti totali sono dedicati esclusivamente dalla descrizione delle ultime 24 ore della vita di Gesù. Ma della risurrezione no, di come sia avvenuta non si riferisce in alcun modo. Non una parola, silenzio. Peccato. Anche perché, come si è detto, in ottica propagandistica avrebbe giovato – e molto – una cronaca in tal senso. A meno che – e a questo punto l’ipotesi non può più essere trascurata – i Vangeli non siano sul serio resoconti di quel che davvero avvenne, di quello che fu effettivamente visto (e non visto) dagli apostoli. Una sorta di diario scritto per portare sì la fede, ma prima di tutto per tramandare degli eventi che quella fede originarono, a partire dall’incredulità degli apostoli. E proprio «quell’iniziale incredulità degli apostoli» – osserva Antonio Socci – mostra «che gli evangelisti non stanno illustrando delle idee teologiche, o un mito, ma riferendo fatti. Fatti concreti, carnali, dettagliati. Fatti inimmaginabili e sorprendenti innanzitutto per loro» [16].
Pasqua, una storia di donne
A favore della volontà di cronaca prima che apologetica dei vangeli,  rileva anche un altro aspetto, e cioè la narrazione di quel che accadde la mattina del 9 aprile dell’anno 30 [17] (data sulla quale non c’è però concordanza, essendovi anche l’ipotesi, ancora più suggestiva, che si trattasse dell’1 aprile del 33 d.C.[18]): le prime a vedere il sepolcro vuoto e a riceverne la spiegazione dall’Angelo del Signore sarebbero state delle donne. Ebbene, si dà il caso che a quel tempo – secondo la prassi socio giuridica ebraica – la credibilità delle donne fosse assai irrilevante. Ce lo rammenta anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato sette anni dopo la crocifissione, che nelle sue Antichità Giudaiche ebbe ad annotare: «Le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso». Chi avesse voluto architettare un racconto fasullo per poi spacciarlo come autentico, quindi, mai e poi mai si sarebbe servito di testimonianze femminili. Eppure, per i Vangeli, la scoperta del sepolcro vuoto è indubbiamente ed esclusivamente una storia di donne. «Un comportamento inspiegabile – commenta Vittorio Messori -, qualora fosse stato deciso dai redattori evangelici e non imposto invece – come evidentemente è – da una sconcertante realtà di fatto, visto che la comunità cristiana primitiva non è meno “maschilista” dell’ambiente da cui proviene» [19].
Una ulteriore conferma dell’autenticità di quella scoperta davvero effettuata da delle donne, ci viene dalle parole di Schnackenburg: «Per la mentalità giudaica, le donne non venivano prese in considerazione come testimoni; ma ciò nonostante le donne ricordate ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto nella scoperta del sepolcro vuoto […] le donne accompagnano Gesù in tutto il suo cammino […] sono silenziose ma […] eloquenti testimoni di quell’evento unico e più d’ogni altro importante» [20]. In altre parole la centralità delle testimonianze femminili, oltre ad essere documentata in più fasi della vita di Gesù e a divenire della massima importanza con la sua risurrezione, fu talmente concreta che determinò una vera e propria svolta, perché quelle donne «ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto».
A questo punto si può obbiettare che, per quanto curiosi, questi dubbi possono tutt’al più costituire basi per alcune ipotesi e non certo divenire indizi, né tanto meno prove fugando dubbi che rimangono.  Esattamente come rimasero ai seguaci di Gesù: il sepolcro vuoto non li convinse affatto – non tutti almeno, e vedremo tra poco perché – della risurrezione. La conferma è nelle parole di Maria di Màgdala, la quale, spaventata, subito ipotizza un furto o comunque un trasferimento improvviso del cadavere: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno messo!» [21]. Un pensiero che non riguardò solo lei se si tiene presente che, in un primo momento, gli stessi apostoli non pensarono alla risurrezione, anzi, «la domanda che essi si facevano era probabilmente di questo tipo: Che significava questo? Cos’è accaduto? Tutte le ipotesi erano possibili ma nessuna di esse sembrava convincente. Gli apostoli non sapevano proprio cosa pensare. E’ vero che sia la Scrittura che Gesù stesso avevano parlato del Messia in termini di prova, sofferenza, morte e risurrezione, ma nessuna delle donne e dei discepoli poteva immaginare che quelle parole bibliche o di Gesù potessero ora prendere la forma dell’evento che stava sotto ai loro occhi, e che faceva pensare invece ad un’assenza, piuttosto che ad un evento glorioso» [22].
Perché Giovanni «vide e credette»?
Anche se in realtà – dicevamo poc’anzi – qualcuno prima degli altri si convinse della vittoria di Gesù sulla morte ci fu. A riferirlo, ancora una volta, sono i Vangeli, che narrano di come Giovanni, giunto là dove Gesù doveva essere e non era più, «vide e credette». Come mai? Non poche traduzioni recenti affermano che i due discepoli (Giovanni e Pietro), giunti al sepolcro, scrutando all’interno videro «i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo». Tuttavia detta traduzione appare poco convincente dal momento che solleva un interrogativo: per quale ragione, vedendo delle bende funerarie ed un sudario ripiegato, Giovanni «vide e credette»? Non è affatto chiaro. A rendersene conto più di altri è stato un sacerdote, don Antonio Persili, che ha scelto di andare a fondo alla questione mettendosi ad analizzare le fonti originali: i Vangeli scritti in greco.
Ecco le sue conclusioni: «Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà othónia keímena […] la versione della Cei traduce questa espressione con “i teli ancora là”. Altre versioni la traducono con “i teli per terra”. In realtà il verbo keîmai, da cui viene il participio keímena, non significa genericamente “essere lì” né tantomeno “stare per terra”. Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse» [23].
Anche la descrizione della posizione del sudario – che secondo traduzioni recenti era «non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo» – ha convinto poco don Antonio: «Keímenon, come già keímena, è participio di keîmai, giacere. Ou metà tôn othoníon keímenon significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio khorìs, in senso modale), appariva arrotolato (entetyligménon, dal verbo entylísso, che significa avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eis héna tópon, che le versioni correnti traducono banalmente come “in un luogo”. Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante» [24].
Precisazioni, queste, tutt’altro che secondarie. Perché se davvero all’interno del sepolcro c’erano «fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse» ed il sudario, a differenza di queste, «appariva sollevato, in maniera quasi innaturale», si può ben comprendere – eccome! – perché Giovanni «vide e credette»: vide l’ultima cosa che si aspettava di vedere, la più incredibile, la più impressionante. Tuttavia lo scopo della nostra piccola indagine era e rimane un altro; e verte su un interrogativo: perché dovrebbe essere “credibile” – ancorché non provabile, ovviamente – la risurrezione di Gesù?
Il dubbio e la grande possibilità
Abbiamo visto come l’ipotesi delle ricostruzioni evangeliche come narrazioni propagandistiche regga poco, prima che alla storia, alla logica: troppe cose non tornano – dalla risurrezione “non vista” da alcuno all’arrivo delle donne al sepolcro, dalla cronaca asciutta alla narrazione di apostoli pavidi al punto da lasciare Gesù solo dall’arresto fino al Calvario [25]  – se gli autori di quei testi erano davvero uomini decisi a divulgare il falso. Anche perché – come nota Sanders – nonostante una lettura critica dei Vangeli porti, dopo la risurrezione, a registrare «storie fortemente divergenti su dove e a chi Gesù apparve», una cosa appare certa: «i suoi seguaci erano sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte» [26]. In altre parole nessuno nega, dopo il ritrovamento del sepolcro vuoto, la varietà delle esperienze [27] – fino a quel momento coincidenti – vissute da apostoli e discepoli, ma è altrettanto evidente, fra costoro, la comune consapevolezza, anzi la certezza, dell’avvenuta risurrezione.
Donde si originarono quella sicurezza e quella determinazione? Gli apostoli furono veramente – come descrisse allusivamente Petronio nel suo Satyricon – dei poveri creduloni che presero sul serio la risurrezione di un cadavere in realtà trafugato e sostituito, combinazione proprio il terzo giorno, con una persona viva, oppure «videro e credettero», e quindi ebbero riscontri concreti del Gesù Risorto? A giudicare da ciò che da dopo Pasqua fecero della loro vita, dedicandosi alla predicazione incuranti pure del martirio, non ci sono dubbi: erano proprio «sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte», e di lì a qualche tempo lo scrissero – come abbiamo visto – correndo ben due rischi: quello di essere smentiti da persone e testimoni di quei fatti a quel tempo ancora in vita (l’ultimo Vangelo, quello di Giovanni, è stato redatto sicuramente entro il 90 d.C.), e quello di essere accusati di una narrazione contraddittoria e poco credibile.
Eppure loro, che avevano frequentato a lungo Gesù senza però mai fidarsi fino in fondo di Lui – Pietro lo rinnegò non una ma addirittura tre volte a poche ore dalla crocifissione! -, ad un certo punto, trasformati da una nuova consapevolezza, decisero di spendere quel che rimaneva loro da vivere per annunciare il Risorto. Allucinazione di massa oppure incontro con una realtà talmente grande da dover essere proclamata a tutti i costi? Il nostro percorso si chiude qui: si aprì con una domanda  – la risurrezione è una favola oppure no? – e con una domanda, inevitabilmente, si conclude. Una domanda che non ha naturalmente lo scopo di convincere nessuno, bensì di sollevare un dubbio, per quanto imponente, in fondo assai ragionevole. Il dubbio, cioè, che in quella remota mattina d’aprile, in effetti, qualcosa di straordinario possa essere accaduto. Qualcosa che cambiò totalmente la vita di chi allora c’era e che, a ben vedere, ancora oggi può cambiare quella di ciascuno. Perché se quel sepolcro era vuoto, lo dicevamo all’inizio, il Cristianesimo non è più una religione fra le altre; se quel sepolcro era vuoto, è tutto vero.
Giuliano Guzzo
Note: [1] Pascal B. Pensées (trad.it Pensieri, Newton Compton, Roma 1993, p. 92); [2] Cfr. Martini C.M. Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, Università Gregoriana Editrice, Roma 1980, p. 15; [3] Dostoevskij F.M., I demoni; Taccuini per “I demoni”, Sansoni, Firenze 1958, p. 1011; [4] I Corinzi 15:17; [5] Biffi I., Verità cristiane nella nebbia della fede, Jaca Book, Milano 2005, pp. 33-34 [6] Cfr. Congar Y.-M.-J. cit. in Messori V. Vivaio, «Avvenire», 28/9/1989, p. 13; [7] Cfr. Guardini R. Le cose ultime, Vita & Pensiero, Milano 1997, p. 78; [8] Biffi G. cit. in AA.VV. Verrà a giudicare i vivi e i morti, «Communio», n.79, 1985, p. 101; [9] Cfr. Biffi I. op.cit. p. 44; [10] DV, 19; [11] Cfr. Dunn J.D.G. Christianity in the Making, vol. I, Jesus Rembered, Eerdemans, Grand Rapids 2003, p. 148; [12] Cfr. AA.VV. Vangelo e storicità, (a cura di Stefano Alberto), BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 38; [13] Cfr. Lüdemann et alii, Fand die Auferstehung wirklich statt? Eine Diskussion mit Gerd Lüdemann, Düssedorf-Bonn, 1995; [14] Dall’intervista di Baudino M., Piergiorgio Odifreddi: “Fieri di non credere”, «La Stampa», 1/3/2007, p. 42; [15] Ronchi E. (a cura di), I racconti di Pasqua, San Paolo, Milano 2008, 40; [16] Socci A. Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano 2008, p. 262; [17]  Cfr. Ardusso F. La fede provata, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2006, p. 166; [18] Cfr. Sangalli R. E il sole si oscurò, l’ultima ora di Gesù, 19/3/2011 – I Vangeli e l’ultima cena, 5/3/2011, «La Bussola Quotidiana»; [19] Messori V., Dicono che è risorto. Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Sei, Torino 2000, p. 41; [20] Schnackenburg R. Vangelo secondo Marco, Città Nuova Editrice, Roma 1973, p. 446; [21] Giovanni, 20:2 [22] Stancati S.T., Escatologia, morte e risurrezione, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2006, p. 225; [23] I primi indizi della resurrezione. Intervista di Gianni Valente, 30 Giorni, anno XIX, febbraio 2001, p. 36s; [24] Ibidem; [25] Cfr. Socci A. Indagine su Gesù, p. 267; [26] Sanders E.P., Gesù. La verità storica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995, pp. 281-283; [27] Cfr. Gronchi M. –  Muya J.L. Gesù di Nazaret, un personaggio storico, Paoline, Milano 2005 p. 218.

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Riguardo l'autore

giulianoguzzo

Classe 1984, vicentino di nascita e trentino d’adozione, mi sono laureato in Sociologia e Ricerca Sociale (110/110) con una tesi di filosofia del diritto. Sono giornalista, sono caporedattore del mensile Il Timone e scrivo per il quotidiano nazionale La Verità, fondato e diretto da Maurizio Belpietro. Collaboro inoltre con Notizie ProVita.