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Perchè gli uomini non ammettono di esser stati stuprati?

Associare la parola uomo alla parola stupro, purtroppo, non risulta difficile, in modo particolare negli ultimi tempi, sull’onda degli scandali che hanno investito e scosso il mondo di Hollywood. Quando però per “uomo” si intende la vittima di tale atto, talvolta la connessione non è altrettanto automatica.

Nonostante le testimonianze di violenze sessuali contro gli uomini si trovino già nelle guerre persiane e nelle crociate, l’argomento, per la sua complessità e scomodità, subisce la pena dell’indifferenza e, spesso, dell’incredulità.
Si crede che un uomo non possa essere stuprato. Eppure, stando a quanto riportato dal Pentagono nel 2014, ogni giorno vengono molestati sessualmente trentotto militari. Perché allora l’argomento è tanto relegato a pochi trafili?
Il motivo preponderante è il fatto che spesso sono le stesse vittime a non voler denunciare le violenze subite. Dobbiamo chiederci nuovamente il perché.

A provocare una chiusura è senza dubbio la forte sensazione di vergogna e imbarazzo che si prova, e che l’ammissione pubblica dell’accaduto amplificherebbe, aggravata dall’opprimente e stereotipata pressione sociale.
Questa dinamica è fortemente collegata al secondo motivo, ovvero la distanza che intercorre tra l’essere vittima di violenza e il concetto di mascolinità, specialmente in quelle società in cui l’uomo non viene incoraggiato a parlare delle sue emozioni. In questi casi sia la mancata difesa da un attacco, sia l’incapacità nel gestire le fasi successivi all’aggressione come un “vero uomo” portano ad un ulteriore scoraggiamento della denuncia.

Se poi la vittima non è completamente in grado di dimostrare che è stata effettivamente stuprata e non era in alcun modo consenziente, rischia di ricadere sotto l’accusa di “attività omosessuale”, che in alcuni paesi è considerata come trasgressione alla legge.
Inoltre il processo giudiziario di per sé rappresenta un’esperienza stressante, un ulteriore “attacco” all’identità della vittima. Come scrive Primo Levi: “il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico […]: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo nel profondo, per non rinnovare il dolore”.

Ma la mancata accusa da parte delle vittime maschili di molestie non è la sola ragione per la quale nell’immaginario comune la figura dell’uomo e, in particolare, quella del soldato, si trova così agli antipodi da quella di vittima sessuale.
La questione degli stereotipi e, in questo caso, degli stereotipi di genere, accennata in precedenza, può fornire una spiegazione fondamentale.
Con il termine stereotipo si indica una credenza o un insieme di credenze in base alle quali si attribuiscono determinate caratteristiche a un gruppo di individui. Per stereotipo di genere si definiscono invece quali devono essere i comportamenti, i ruoli e l’apparenza fisica di una persona in base al genere a cui quest’ultima appartiene. In particolare gli stereotipi della mascolinità si rifanno a percezioni e supposizioni sovra-generalizzate riguardo le caratteristiche che si suppone gli uomini debbano possedere, come si debbano comportare e che cosa debbano credere.
Agli uomini vengono associati aggettivi come forte, coraggioso, virile, resistente al dolore e, in un certo senso, anche alle emozioni. Il linguaggio stesso ci aiuta a capire con quali ideali vengono cresciuti i maschi, cui già da piccoli vengono dette frasi come “sei una roccia”, “sei forte come una quercia” oppure “non piangere, sei un uomo”, che vanno a sottolineare e delineare le caratteristiche che un maschio deve avere per essere accettato dalla società.

Gli stereotipi maschili, quindi, non identificano mai l’uomo come vittima, e in questo modo gli uomini stessi sono portati a non vedersi come possibili vittime di abusi, cosa che invece accade di sovente alle donne.
Lo stereotipo dell’uomo forte porta alla credenza che egli sia capace di resistere a qualsiasi attacco, e di conseguenza l’immagine della vittima, debole e indifesa, sembra non potersi sovrapporre in alcun modo a quella dell’uomo potente e vigoroso.
Alcune società alimentano questa stessa visione, poiché si ritiene che le vittime di abusi sessuali non siano dei “veri uomini”, dato che un “vero uomo” avrebbe saputo difendersi.

In questo senso l’essere vittima di un abuso sessuale sembra espropriare l’uomo dei suoi attributi mascolini, e spesso è proprio questo l’intento dell’aggressore.
Oltre a privare della mascolinità, spesso l’aggressore mira a diminuire ulteriormente lo status sociale della vittima, riducendolo a una sorta di “femminizzazione”. Di fatti, se l’associazione uomo-vittima risulta non essere contemplata, quella donna-vittima è invece altamente comune. L’abusare di un uomo, quindi, può portare alla ulteriore umiliazione, seconda la visione sociale, di vedersi attribuire attributi generalmente femminili, quali quella della vittima.

Il tentativo di abbassare lo status della vittima non avviene solo attraverso la “femminizzazione”, ma anche attraverso la cosiddetta “homosexualization”, ovvero la “riduzione” a omosessuale.
Lo stereotipo maschile, infatti, è indissolubilmente legato anche al concetto di eterosessualità. Se l’essere eterosessuale viene considerato simbolo di potere, l’essere omosessuale implica una minore mascolinità.

Il fatto di abusare di un uomo in un atto che ricorda quegli omosessuali, o il costringere un uomo ad abusare di un terzo, è un ulteriore modo non solo di ridurre la posizione sociale, ma anche di disonorare, macchiare la vittima.
A fronte di tutto ciò, l’abuso di uomini esiste, è un argomento reale, quotidiano, che deve essere preso in considerazione. Mettere a tacere la questione, il minimizzarla o, addirittura, come avviene, negarla, non farà altro che relegarla in un angolo, fino a che essa non esploderà in una nuova ondata.

Gaia Celebrin

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