Le diamo sistematicamente per scontate, ma non lo sono. Dove infatti mancano diventa difficile perfino per i lettori più esperti arrivare in fondo ad una frase senza rimanere almeno per un momento spaesati confusi come senza fiato. Sono le virgole, come si sarà capito. In termini puramente tecnici, si tratta di segni d’interpunzione con almeno tre finalità: separare «i vari membri di un elenco», stare «prima di un’apposizione (‘Carlo, l’amico di cui ti ho parlato)» e «delimitare un inciso (‘Carlo, mi è stato detto, sarà presente)» (Giunta C. Come non scrivere, Utet 2018, p.115).
In modo più generico, le possiamo definire come l’ossatura indispensabile di ogni singola frase, l’impalcatura che la sorregge, la suddivide, la rende leggibile. Dove difatti mancano, come si è visto nella seconda frase di questo articolo, la frase stessa perde l’anima trasformandosi in un’asfissiante e camionistica colonna di parole. Per questo, anche se tanti ne hanno una concezione meramente decorativa, andrebbero riscoperte. Senza, ovviamente, esagerare, perché, come, si sa, il, troppo stroppia: anche nella scrittura. Il vero segreto è dunque sapere dove, come e quando posizionarle.
Una regola assoluta, inutile negarlo, in tanti casi non esiste. Da questo punto di vista, le virgole non rappresentano quindi solo l’ingrediente indispensabile di ogni frase, ma sono anche espressioni di libertà: ogni scrittore, ogni giornalista, chiunque componga un testo può scegliere come servirsene. Ma da come uno ricorre alle virgole – dall’uso equilibrato, raro, caotico o eccessivo che se ne fa – non traspare solo la sua abilità scrittoria ma anche, anzi soprattutto, la sua chiarezza di pensiero. Solo chi sa sempre dove mettere le virgole, infatti, sa davvero scrivere. E davvero pensare. Le virgole sono ben altro, insomma, che solo virgole.