Da diversi anni, ormai, si discute al riguardo dei cookies, ovvero dei piccoli file che si installano sui più disparati dispositivi informatici per prendere nota di tutte le ricerche effettuate dagli stessi, al fine di garantire all’utente una pubblicità più mirata possibile.
Ragionandoci, però, è a dir poco curioso notare quanto paradossale sia il dibattito legale sul tema e quanto contraddittorio sia l’atteggiamento che gli utenti hanno su quel che concerne la privacy: sono infatti pochissimi i navigatori del web che, con costanza e diligenza, si impegnano a disattivare questi cookie, evitando di essere “spiati” dalle diverse società.
Luca Bolognini, presidente dell’Istituto italiano per la privacy, guarda con favore alle attuali disposizioni legali italiane sul tema: “Dal punto di vista del principio, in Italia viene rispettata già da qualche tempo la sentenza della Corte europea, la quale ha sancito l’impossibilità di far trovare all’utente delle caselle con la spunta già selezionata sul ‘sì’ nel momento in cui si chiede il consenso“. In effetti, in Italia esistono dei banner, nei quali si chiede il consenso per installare tali cookies: “Se il banner è grande e obbliga l’utente a una scelta, secondo me è considerabile come un consenso inequivocabile“.
I banner oggettivamente ci sono e sono grandi a sufficienza da non poter essere ignorati, oltre ad adottare strategie visive come l’offuscamento della schermata del sito che si intende visitare finché non si risponde alla domanda posta dal banner. Tuttavia, anche in questo caso ci sono strumenti ingannatori.
La scelta, infatti, ricade spesso tra due possibilità: o la risposta affermativa con “accetto“, tipicamente evidenziata e di un colore diverso, oppure la meno rassicurante “più opzioni“, che non rappresenta testualmente una possibilità di non accettare questi cookies. In realtà basta accedere a queste più opzioni per scoprire che è perfettamente possibile – e in alcuni siti anche molto facile – non consentire l’installazione di questi file.
Da questo punto, però, parte la riflessione sulla contraddittorietà del mondo della privacy, un campo negli ultimi anni diventato il più florido per gli avvocati di tutto il mondo, tra GDPR, privacy nel web e quant’altro.
La problematica sorge sui social network, lo strumento che più mette in difficoltà qualsiasi norma riguardo i diritti della privacy. Come si può infatti affermare di “non voler essere seguiti” quando poi si pubblicano a cuor leggero stories su Instagram con tanto di riferimento geografico, temperatura, orario e via discorrendo? In quel caso, non ci sono cookies a pubblicare gli spostamenti degli utenti in qualche determinata direzione, ma è l’utente stesso a mettere in rete la propria attività. Tale azione è considerabile come “esplicito consenso” alla diffusione di questi dati? Agli avvocati la risposta.
Per non parlare di Facebook e dei suoi algoritmi. Si prenda l’ipotesi di un utente appassionato di automobilismo sportivo: mettere un like alla pagina di una scuderia è considerabile come esplicito consenso a ricevere sia pubblicità di quella casa automobilistica che suggerimenti di like ad altre pagine di costruttori automobilistici? Stringere amicizia con una persona vuol dire necessariamente entrare nella sua rete “pubblicitaria”, selezionando di volta in volta cosa interessa all’utente e cosa no?
Anche YouTube ultimamente è “caduto” nella trappola algoritmica: oltre alla riproduzione automatica – dove talvolta viene riprodotto un brano “novità” di qualche casa discografica di successo ma completamente scollegato musicalmente dagli altri brani ascoltati – adesso può capitare talvolta di dover rispondere a dei “sondaggi” per poter ascoltare la musica che si preferisce. Le domande, spesso sibilline, chiedono quale spot si sia visto o apprezzato tra quelli elencati a destra. Certo, c’è la possibilità di rispondere “nessuno dei precedenti”, evitare il sondaggio e passare all’ascolto, ma in questo caso l’algoritmo del “tubo” non sarà in grado di capire la volontà dell’utente di non rispondere affatto al sondaggio, quanto piuttosto che quello proposto è un campo che non interessa. Se però si dovesse selezionare una delle opzioni proposte, di nuovo, è esplicito consenso a essere tartassati di pubblicità di quella determinata marca?
Questo, dunque, è il confine labile e anche un po’ paradossale: gli utenti, in nome della socialità – o per meglio dire della socialdipendenza – danno ogni giorno informazioni vitali per l’industria pubblicitaria mettendo a repentaglio la propria privacy, denunciando poi sia la violazione della stessa sia lo scarso valore di alcuni spot. Delle due, però, l’una: il mezzo più democratico possibile per non vedere spot pubblicitari di scarso livello è quello di far capire all’algoritmo la propria contrarietà, rinunciando a parte della privacy; l’atteggiamento più adatto a riservare la privacy è quello di accettare quanto imposto dal mercato senza metterci bocca.
Un po’ come le elezioni politiche: o si vota il determinato partito prendendosi le “responsabilità” di averlo votato, o non si vota alcunché rinunciando però a esprimere la propria volontà.
Riccardo Ficara Pigini