Nel bollettino di ieri, Maurizio Fugatti ha aperto a una sperimentazione della cura col plasma iperimmune contro il Covid-19. Sulla terapia, eseguita al momento con successo negli ospedali di Mantova e Pavia, ci sono però ancora alcuni dubbi, soprattutto sull’esatto funzionamento.
Fondamentalmente, la terapia avviene in 5 fasi distinte. Nella prima fase, si verifica con certezza che il donatore abbia superato la malattia, osservando le diagnosi da Covid-19 e i tamponi positivi; nella seconda fase si effettua uno screening pre-donazione, accertandosi che il donatore non manifesti più alcun sintomo da più di 14 giorni, che sia risultato negativo al tampone e che non abbia rischi legati alla donazione.
La terza fase, più complessa, si compone di due differenti test: uno molecolare, per avere la certezza della negatività al Covid-19, e uno anticorporale, che certifichi la presenza di anticorpi contro il Coronavirus. Se questi due test danno riscontri ottimali, si può procedere all’effettiva donazione, che avviene attraverso un prelievo di sangue venoso. Un macchinario separa tramite centrifugazione il plasma dalla parte cellulare del sangue, così che il plasma possa essere lavorato e utilizzato, mentre la parte cellulare viene reimmessa nel circolo del donatore. La quinta fase vede invece la definitiva trasfusione, previa identificazione di compatibilità tra donatore e ricevente.
Non mancano però osservazioni da fare riguardo questa terapia. L’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani (ANBI) ha a tal proposito pubblicato un post su Facebook molto chiaro: la terapia funziona ma non sarà la cura definitiva, a basso costo e prodotta “sotto casa”. La terapia certamente ha efficacia, visto che già nel 2013 venne usato il plasma di persone che avevano superato l’Ebola, sviluppando anticorpi specifici che potevano essere riutilizzati tramite trasfusione.
Anche per quanto riguarda la lotta al Covid-19, la comunità scientifica dibatte su questo già da molto tempo e sono iniziate adesso le sperimentazioni, necessarie dal momento che con l’AIDS o l’influenza comune la cura al plasma non ha funzionato. Tuttavia sperimenti in questo senso avvenivano già a gennaio in Cina e da fine marzo si è iniziato a discuterne in Italia, dopo che dalla seconda metà di febbraio iniziavano a proliferare studi scientifici accreditati al riguardo.
“I dati sono molto incoraggianti” sostiene comunque l’ANBI. “La maggior parte dei riceventi ha avuto sensibili miglioramenti, senza segnalazioni di particolari effetti collaterali al momento, come è invece purtroppo avvenuto per l’idrossiclorichina o l’eparina”. Tuttavia – spiegano i biotecnici – questa terapia non può essere usata su tutti indiscriminatamente perché non è semplice trovare donatori di qualità che abbiano superato le prime tre fasi della terapia.
“Non bisogna nemmeno dimenticare che non si può ‘spremere’ un donatore” ricorda l’ANBI. “Si può donare il plasma non più di 4 o 20 volte all’anno in base ai livelli di emoglobina e con ogni donazione si possono aiutare massimo due persone, numeri certamente insufficienti a far fronte all’emergenza che stiamo vivendo“.
Un altro problema è legato alla risposta immunitaria: non si hanno infatti certezze sulla durata di questa, ma visto che il numero di anticorpi nel sangue è destinato a scemare nel tempo, si può dire verosimilmente che la terapia sia efficace solo nel breve termine. Se ci fosse una seconda ondata, inoltre, ci vorrebbe circa un altro mese secondo le stime dell’ANBI affinché si possa utilizzare un nuovo plasma da parte dei soggetti contagiati, senza contare tutti gli squilibri nei processi coagulativi che rendono complesso anche lo stesso trattamento.
“Per questo servono i biotecnologi, per trasformare un approccio efficace nel breve termine su piccola scala in qualcosa che funzioni su larga scala nel lungo termine” conclude l’ANBI. “Dobbiamo essere pronti per quanto il Covid-19 tornerà“.