Il Giorno della memoria venne istituto da una legge del Parlamento italiano (n.11/20 luglio 2000) al fine di ricordare la Shoah, ossia la persecuzione e lo sterminio del popolo ebraico, nonché tutti gli italiani, specie i militari (gli Imi) che subirono deportazione, prigionia e morte nei campi nazisti.
Siamo oggi al XXII anno in cui ci si sofferma a ricordare questi eventi storici, che hanno una duplice valenza intrinseca: si tratta infatti e anzitutto di una memoria particolare, ebraica, perché le maggior parte delle vittime della Shoah furono gli ebrei europei, perseguitati e assassinati da un sistema ideologico e da un apparato statale razzisti, esplicitamente antisemiti, e più in generale totalitari e liberticidi (altre vittime, spesso dimenticate, furono i Rom e i Sinti).
Ma tali eventi hanno anche un valore universale, perché sono stati il culmine di una deriva culturale, prima ancora che istituzionale, di buona parte della società europea tra le due guerre; una deriva che fu in vero una débâcle degli ideali democratici, ispirati a giustizia, libertà e uguaglianza, che solo con la sconfitta del nazismo e del fascismo poterono essere ripristinati in Europa, quell’Europa che simbolicamente è ri-nata proprio con l’abbattimento dei cancelli dei campi di concentramento e di sterminio ad Auschwitz, in Polonia, da parte dell’Armata sovietica.
Il 27 gennaio 1945, storicamente, è la data dell’abbattimento di quei cancelli, anche se la guerra, in Europa, finì solo in aprile. Ma ci vollero anni, anzi decenni, perché le società e gli stati elaborassero il senso di cosa davvero avvenne con la deriva totalitaria e razzista di quei regimi. Si può dire che tale elaborazione non sia ancora finita. Certamente non è finito il nostro compito di ‘scrivere la storia’ di quegli eventi e di ‘fare memoria’ dei traumi personali, sociali e politici da essi prodotti. Scriverne la storia è compito dei ricercatori, degli specialisti, e mi piace qui ricordare che un grande contributo è stato offerto dal nostro Ateneo, con le ricerche storiche sui Lager nazisti svolte dal professor Gustavo Corni e dai suoi molti allievi.
La conoscenza della storia resta fondamentale: essa cresce con il rigore della ricerca ed è la base razionale su cui si innestano i valori di una società eticamente avvertita, consapevole. La memoria è un passo diverso e ulteriore: è il momento in cui le conoscenze storiche, che devono convincere l’intelligenza, si trasmettono anche su un livello emotivo e motivazionale alle nuove generazioni. La memoria è ingrediente essenziale delle nostre identità, personali e politiche; va coltivata e trasmessa appunto come fattore identitario, per cui occorre che si attivino diverse strategie pedagogiche, narrative, immaginative. A questo scopo serve il Giorno della memoria, perché i preziosi e fondamentali risultati della ricerca degli storici diventino ‘carne e sangue’ di un ethos collettivo, che è poi quello che i padri e le madri costituenti hanno messo nella nostra Costituzione. Senza la memoria del prezzo pagato dalle vittime del nazi-fascismo, e dunque senza un ethos collettivo elaborato a partire dagli eventi della Shoah e della resistenza (tipo: Rosa Bianca, ben nota nel tessuto sociale e politico trentino; ma anche le testimonianze di sopravvissuti come Primo Levi e Liliana Segre), la nostra società rischia di perdere le ragioni etiche che stanno alla base della nostra convivenza.
Qualche anno fa la storica Anna Foa ha scritto: “Evento limite per eccellenza, la Shoah è irta di pericoli anche nella sua trasmissione. Essa porta alle estreme conseguenze la discrepanza tra un’esigenza conoscitiva – conoscere quello che è stato, ricostruirlo, fissarlo in immagini e didascalie sulle pareti di un museo – e un’esigenza etica, tesa a sollecitare il ricordo per evitare che l’evento si ripeta sotto qualsiasi forma […] e dal punto di vista etico dobbiamo insegnare soprattutto la responsabilità, la libertà delle scelte” (dal volume: Conoscere la Shoah, a cura di Massimo Giuliani, La Scuola, Brescia 2013).
Ha ragione la professoressa Foa: il passato può solo essere studiato, ma da quello studio possiamo ricavare stimoli per esercitare una libertà capace di sfidare chi quella libertà stessa vuole negare: la libertà di essere diversi, di pensarla diversamente, di esprimere libere opinioni (nel rispetto degli altri), di agire sempre e anzitutto secondo coscienza. La cultura ebraica era invisa ai regimi totalitari e alle ideologie razziste proprio perché insegna il primato di quella libertà, e dello studio, e dell’uso critico della ragione. La Shoah è una memoria particolare, dunque, che tuttavia offre paradigmi universali per mantenere vivo e vitale l’ethos sorto da quei tragici eventi.
di Massimo Giuliani Docente di Pensiero ebraico nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento