Domenica 12 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne per le elezioni amministrative e per il referendum abrogativo sulla giustizia. La scelta stilistica di anteporre le comunali al referendum non è una licenza poetica, ma piuttosto una triste constatazione.
In tutta Italia, infatti, il sistema partitocratico ha – più o meno volutamente – snobbato il referendum, preferendo di gran lunga concentrarsi sulle comunali che, peraltro, vedono andare al voto importanti città italiane come Verona, Palermo, Genova e Catanzaro. E questo evidenzia molteplici problemi.
Primo problema: la democrazia intesa come costo e non come valore. Questa ormai odiosa pratica di dover accorpare una mole incredibile di elezioni al populistico grido di “ma quanto ci costa andare a votare?” ha palesato la sua più totale antidemocraticità: se vediamo la democrazia come un ostacolo, come un costo, come un qualcosa da limitare e “incatenare” dietro alla praticità del quotidiano, può anche andar bene ma allora evitiamo di fare grandi fanfare e proclami di democrazia il 2 giugno.
Secondo problema: i partiti incapaci di fare partito. Comprensibilissimo l’aver preferito le comunali al referendum, Sindaci, Assessori e Consiglieri costituiscono la linfa vitale per mantenere vivi programmi e ideologie dei singoli partiti, quindi da questo punto di vista poco da rimproverare alle segreterie nazionali. Però le ideologie e i programmi vivono anche di idee: possibile che il Centrodestra, che da sempre conduce – a parole – una battaglia per la riforma della giustizia, non sia capace di esprimere cinque esperti di diritto da portare nelle piazze italiane per parlare di Referendum, anche solo nei comuni dove non si va al voto? Possibile che la più grande campagna del Centrosinistra sia stata “non andate a votare”?
Terzo problema: il meteo. Già aver unito due consultazioni elettorali non ha sicuramente aiutato le segreterie politiche a svolgere il loro lavoro, pur non essendo esse esenti da colpe. Aver piazzato il referendum a metà giugno, quando il “rischio” di giornate di caldo rovente che spingano le persone più verso il divertimento e la giornata al mare che non al senso civico è decisamente alto, rappresenta platealmente il disprezzo provato dal nostro sistema democratico nei confronti di ciò di cui si nutre, ovvero il consenso popolare. Ma d’altronde, i seggi non vengono assegnati proporzionalmente all’affluenza…
Fatta questa (doverosa) premessa polemica, il referendum se letto e analizzato correttamente non può non portare alla volontà di votare 5 sì. Il primo quesito, sulla Legge Severino, con la vittoria del sì imporrebbe ai giudici di decidere caso per caso sull’interdizione dai pubblici uffici dei politici condannati. Bisogna ricordare, però, che la Legge Severino prevede l’impossibilità di candidarsi per chi ha subito una condanna definitiva per gravi reati (e fin qui siamo tutti d’accordo) e la decadenza immediata dalle cariche pubbliche, valevole limitatamente agli amministratori locali anche con condanna non definitiva. Perché mai un Consigliere comunale dovrebbe vedere i suoi diritti ridotti rispetto a un parlamentare? Perché un onorevole dovrebbe poter attendere il terzo e ultimo grado di giudizio mentre no, un Sindaco deve essere sbattuto in prima pagina come mostro solo al primo grado di un giudizio che potrebbe essere ribaltato? Ecco allora che il Sì va a tutela di chi spesso e volentieri si prende tante responsabilità, come gli amministratori locali, lasciando a chi deve esprimere il giudizio la sensibilità nell’interdire il condannato dai pubblici uffici.
Il secondo quesito tocca il tema della custodia cautelare. Su questo molto si è scritto, ma basta ricordare una semplice questione: la vittoria del sì non cancellerebbe la misura cautelare per i reati più gravi, verrebbe piuttosto evitato il trauma di una carcerazione preventiva per reati difficili da reiterare (o che se venissero reiterati contribuirebbero sensibilmente alla sentenza di condanna). Spesso si parla di sovraffollamento delle carceri e come soluzione di propone l’indulto, non si capisce perché liberare condannati sia più a tutela della sicurezza pubblica del non incarcerare innocenti.
Il terzo quesito prevede la separazione delle carriere tra PM e Giudici. Il voto per il Sì è presto motivato: consentire a chi rappresenta la pubblica accusa di svolgere anche il ruolo decisionale genera un sistema perverso in cui, parafrasando un noto magistrato italiano, “non esistono innocenti, ma colpevoli non ancora scoperti“. Nel giudizio serve imparzialità e i giudici dovrebbero venire da una scuola apposita tesa a garantire una sentenza imparziale. Un’obiezione potrebbe suggerire che una persona che ha studiato e svolto il ruolo di giudice poi sarebbe un ottimo Pubblico Magistrato, perché saprebbe identificare al meglio quali cause potrebbero finire con una sentenza di condanna e quali invece finirebbero in un “buco nell’acqua”. Può anche essere vero, ma siccome con la legge attuale è consentito anche il passaggio inverso – che è quello più problematico – la legge va abrogata.
Il quarto e il quinto quesito sono nettamente più “tecnici” e di fatto difficilmente verranno compresi pienamente dagli elettori. Il quarto tratta l’apertura anche ad avvocati e professori della valutazione di professionalità dei magistrati, così che – con una vittoria del Sì – decada una potenziale “lobby” dei magistrati ma col rischio che poi si formi un sostanziale “codice cavalleresco” in cui si cerca di ingraziarsi la controparte per evitare di avere ripercussioni nell’avanzamento di carriera. Il quinto invece è relativo ai metodi di candidatura al CSM, abolendo il requisito minimo delle 25 firme di altri magistrati per candidarsi. Ciò servirebbe per evitare che si formi un “gioco delle correnti” interne alla magistratura, ma d’altra parte eliminerebbe del tutto una base minima di consenso al candidato.
Questi due quesiti sono meno impattanti nella vita di tutti i giorni, tuttavia le ragioni del Sì restano superiori a quelle del No, anche se in entrambi i casi saranno necessarie delle misure correttive: per la valutazione dei magistrati per esempio si potrebbe pensare a un sistema per cui le parti coinvolte nel medesimo processo non possano votare tra loro; per le candidature si potrebbe pensare a un sistema in cui non “ci si candida” ma “si viene candidati”, con i magistrati obbligati a presentare un nome diverso dal proprio. Sicuramente ne uscirebbero versioni sensibilmente migliorate delle attuali normative.
Detto questo – e spiegati i motivi dei 5 Sì – rimane un forte senso di amarezza per il fatto che anche stavolta il quorum potrebbe non essere raggiunto. Durante la tanto vituperata Prima Repubblica il fronte del No andava a votare, anche in maniera massiccia, e si andava spesso ben oltre la linea del 50%+1 del quorum. Il fronte del Sì – spesso in passato e anche stavolta rappresentato dal Partito Radicale – usava il referendum per lottare sulle idee, non per danneggiare l’avversario politico. Mancanza di stile, di classe, di ideologia. Mancanza, forse, di una classe politica.
Rinaldo De Santis