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Il Post-It di Marco Vannucci: Il Professore.

L’ho sempre chiamato con il titolo accademico, Professore, al punto di non ricordare quale nome proprio possegga. Alessandro, mi pare, ma potrebbe essere pure Giovanni o vattelapesca chi. Il professore è un matematico, cattedratico in una delle più importanti università italiane, ma non un matematico qualsiasi. Pluripremiato, su Google sfoggia un curriculum da 50 pagine di internet, e se esistesse il Nobel per la matematica quantistica l’avrebbe vinto almeno 3 volte.

Il dono della penna l’ha ricevuto, ma lui se ne frega e continua a pensare al suo mondo sempre in bilico tra la metafisica e l’incoscienza della cultura, quando la cultura diventa incosciente al punto di occupare ogni cellula nervosa della materia grigia. Ho perso il conto delle sue lauree: s’è divertito, parole sue, a prenderla una anche in fisica, un’altra in statistica, l’ultimo, in ordine di tempo, un dottorato in musica sacra. Oltre ad una serie infinita di attestati, nonché scrittore di saggi universitari. Ca va sans dire, il professore è questo, un anarchico inconsapevole di esserlo, un genio ignoto a se stesso.

L’ho rivisto, dopo un paio d’anni, in un bar di un paese brianzolo. Curvo, rannicchiato, barba trasandata come il vestito indossato. Lo guardo. Fa pendant, esclamo riferendomi all’accoppiata vestito-barba. Ride. Poi sbofonchiando con la bocca impastata m’invita al tavolo. Un bicchiere di vino? Osservo il tavolo: sopra di esso 5 bottiglie di vino vuote ed un solo bicchiere, testimone silenzioso del tempo fragile. No, grazie professore, sono semi astemio. Un caffè, ma lo offro io.

Due caffè, per favore, chiedo ad una barista un po’ stupita ed intesa a guardarmi come per dirmi: lo lasci perdere, è un matto! Ed io avrei voluto risponderle di non preparare più il caffè, lo berremo da un’altra parte dove trovare un oste meno ipocrita e più attento nel dire basta a chi altro vino in corpo non gli entra proprio più. Lascio perdere e mi siedo al tavolo. Il professore alza la testa per un attimo. Sono contento di rivederti, mi dice, poi rimette la testa piegata sul petto cercando di non farti capire se dorma oppure guardasse le scarpe. Soprattutto cerca di mascherare il suo stato. Se da una parte provo tenerezza per quest’uomo, dall’altra ne ammiro la sua immensa cultura.

Ricordo di non averlo mai visto insieme ad una donna, e neppure il solo parlare di esse, forse dovuto al dolore di una compagna fuggita chissà dove; così mi confidò qualcuno anni addietro. Non gliel’ho mai chiesto, non me l’ha mai detto. La curiosità si fa tacita davanti al rispetto dell’uomo. Ed anche davanti al dolore. Solo una volta me ne parlò tirando fuori dal cilindro una massima che, da allora, feci mia: parlo con le donne, ma non parlo di donne. Chapeau!

Il professore inizia ad aprirsi, mi narra della matematica quantistica e le analogie con la filosofia di Platone, della costellazione planetaria, del big bang per il quale, secondo la sua teoria, noi abbiamo avuto il big bang quando dall’altra parte del buco nero avvenne un’implosione. Ci sta, penso, lo lascio continuare… Ecco come in un fiume di parole escono le teorie di Newton, Galilei, Fermi, Rubbia, Marconi… Majorana è stato il più grande di tutti, afferma convinto, merito della scuola di quel tempo e di un Ministro con la emme maiuscola (Giovanni Gentile ndr).

Oggi vedo solo tanta ignoranza unita alla superbia e strafottenza. Così non va, mi dice, rischiamo un futuro da ignoranti. Rimango affascinato. Non sono un cretino, ma nell’ascolto avverto la sensazione della mia nullità. Succede. Seppure, ogni volta mi metta a mio agio, succede sempre. Rimarca su la sindrome ionica di Einstein con una frase enigmatica: era un disperato, un po’ come me.

Ti voglio bene, Professore.

Marco Vannucci