Cantava nelle pizzerie napoletane per racimolare qualche soldo, ma soprattutto per passione. E cantava bene, anzi benissimo, tant’è fu definito la voce terrena degli angeli.
Era bassino di statura, grassottello, non bello a vedersi. Di certo non avrebbe mai attirato l’attenzione per la fisicità. Aveva 12 anni quando iniziò a lavorare per un meccanico del Rione Sanità, non era il suo lavoro. Come nessun lavoro è adatto per un bambino di 12 anni. Atri tempi, neppure tanto lontani a pensarci bene. Pure oggi, nel mondo, di bambini sfruttatati sul lavoro ne esistono a milioni nel silenzio ipocrita di tutti. Era di umili origini, quinta elementare e via a lavorare. “A da purtà lu pane a casa”. Aveva un talento naturale, mai sfruttato in verità, era un abile ritrattista; ma chi avrebbe commissionato un ritratto, nella Napoli dei quartieri Spagnoli, alla fine del 800?
Napoli aveva perso quella meraviglia economica capace di ingolosire Garibaldi ed i Savoia. La Napoli del treno quando, al nord, camminavano con gli zoccoli. La Napoli culla della cultura europea con la banca più ricca al mondo, la San Paolo. Fu depredata, San Paolo in primis. Per poi le acciaierie di Sarno, i filati, pure la locomotiva della tratta Napoli Pozzuoli. Fu ridotta in miseria. Un antico ritornello napoletano, ripreso diversi anni fa in una canzone di Vecchioni, recita così: pecché, senza sapé pecché, tenimmo o meglio spigola po re, noi simmo gente ‘o core…
Dall’altra parte dell’Italia, Fabio Ricordi, il notissimo produttore musicale nonché titolare della casa discografica “La Voce del Padrone”, dalla sua scuola di musica erano usciti due enfants prodige della lirica italiana: Giacomo Puccini e Pietro Mascagni, quest’ultimo il compositore dell’immortale “Cavalleria Rusticana”. Ma fu il lucchese Giacomo Puccini, con la sua musica, a rivoluzionare la lirica inserendo la dolcezza nelle arie del bel canto.
Il successo fu immediato già con “il trittico”: la Rondine, il Tabarro, Gianni Schicchi dove l’aria, “o mio babbino caro”, fu cavallo di battaglia e delizia della Divina, Maria Callas. Dopo Il Trittico, Puccini, musicò la Manon Lescaut litigando con Fabio Ricordi per il nome da dare all’opera. Fabio Ricordi s’impose per Manon Lescaut, dal libro di Antoine François Prévost di metà del 600, Per Puccini era sufficiente solo Lescaut. Andarono ai ferri corti, fu Giacosa, il librettista, a ricomporre la frattura.
Giacomo Puccini, alto, bello ed impertinente donnaiolo, che non possedesse un carattere facile era cosa nota. Ma aveva un gran cuore prendendosi in casa Dora Manfredi, la figlia del suo migliore amico deceduto qualche anno prima. Suo malgrado non aveva fatto i conti con la gelosia della moglie, Elvira, capace di accusare la giovane ragazza di essere l’amante del marito. La voce dello scandalo si sparse in battibaleno nel piccolo paese di Torre del Lago, Dora Manfredi non sopportò le malelingue suicidandosi.
Giacomo Puccini era tombeur de femmes, ma pure un galantuomo. Mai e poi mai avrebbe nutrito istinti sessuali verso la figlia di un amico, a sua volta considerata una figlia da lui stesso. L’autopsia sul corpo della povera Dora fu chiara: la ragazza era illibata. Elvira rischiò il linciaggio dalla gente del paese. Fuggì a Milano. Puccini, della moglie, da quel giorno non ne volle più sapere. Nella Turandot in molti riconoscono l’aria struggente del “non piangere Liù”, la dedica di Puccini alla piccola Dora.
Il nome di Puccini era acclamato in tutto il mondo, al Teatro San Carlo di Napoli andò in scena il capolavoro pucciniano: La Bohème. Nel loggione, ovvero nel posto popolare del teatro, stava quel ragazzo che la sera cantava nelle pizzerie. Il giorno dopo non ci pensò due volte, racimolò i pochi spiccioli posseduti per un biglietto ferroviario di terza classe per Torre del Lago. Aveva appresso una valigia di cartone, legata con lo spago, un quarto di formaggio pecorino ed un chilo di pane. Il viaggio durò una settimana. E Torre del Lago, fu. La villa di Giacomo Puccini stava (sta ancora oggi) nella piazza principale affacciata al lago di Massaciuccoli.
Il campanello era un battacchio, il ragazzo ci si attaccò fin che, Dora Manfredi, gli aprì. Percorse i 30 metri di distanza tra il cancello e la porta d’ingresso, e… Buongiorno, c’è il Maestro? Il Maestro è in casa, rispose Dora, ma in questo momento sta dormendo. Posso aspettare, signorina.
Un’incuriosita Dora Manfredi chiese al ragazzo il perché della visita. Vorrei fare un provino. Hai un appuntamento, ragazzo? Veramente no, rispose imbarazzato. Beh, allora, fa così: torna a casa, scrivi una lettera chiedendo un appuntamento… A casa? E come? Gli spiccioli erano finiti, ma la delusione fu talmente forte che il ragazzo chinò la testa, nascondendo una lacrima, ritornando nei suoi passi.
Ma una volta fuori dal cancello con un moto di rabbia scaraventò la valigia per terra, frantumandola, spargendo le sue povere cose nella piazza. Fu allora che si voltò verso la villa ed intonò, a cappella, la celeberrima “O sole mio”.
Dal primo piano della villa s’aprì la persiana, Giacomo Puccini s’affacciò: Sali in casa, ragazzo!
Quel ragazzo era Enrico Caruso.
Marco Vannucci