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Il disastro delle banlieues francesi come monito per gli immigrazionisti italiani

Gérald Darmanin. Sì, proprio lui. Il ministro degli interni francese che si permetteva di criticare l’incapacità italiana nel contrastare l’immigrazione clandestina. Incapacità che è assolutamente reale, certo. Ma forse Darmanin è l’ultimo a poter muovere delle critiche. E non solo per ciò che sta accadendo in Francia con la rivolta delle banlieues che si estende ai centri città ancora abitati dai francesi colpevoli di essere bianchi. Conseguenza inevitabile delle politiche immigrazioniste della gauche caviar.

Marco Valle, su Insideover, descrive la realtà che Darmanin, evidentemente, non è in grado di affrontare. O non vuole farlo, sempre per la stessa mentalità immigrazionista. A partire dal nnarcotraffico. Scrive Valle: <Nonostante l’aumento di sequestri operati dalle forze dell’ordine — 27,7 tonnellate di cocaina (+ 5% rispetto al 2021), 128,6 tonnellate di cannabis (+ 15%), 1,4 tonnellate di eroina (+9,5%), 1 milione di pastiglie di ecstasy (+6%), 300 chili di anfetamine (+15%) — il fenomeno continua a dilagare quasi indisturbato generando “una moltitudine di attività legali e, soprattutto, illegali: l’80% dei regolamenti di conti, il 25% delle armi recuperate e i 2,7 miliardi di euro sequestrati alla malavita provengono dal mercato della droga”>. E prosegue ricordando che a gestire il colossale business sono pochi francesi e <una miriade di cartelli internazionali: narcos sudamericani, la “mocro mafia” marocchina (ma impiantata in Olanda e Belgio), mafiosi e camorristi nostrani, balcanici d’ogni tipo, cinesi, russi e ucraini. Un quadro in continuo movimento ritmato da rivalità feroci e continue sanguinose faide. Un’ordalia costata l’anno scorso 41 morti, di cui un terzo giovanissimi>.

Ma come? Il Paese dell’accoglienza, che osteggia le piccole patrie interne ed esalta qualsiasi clandestino (purché non sia sbarcato a Lampedusa prima di trasferirsi nell’Esagono), che penalizza il popolo francese per mettere al primo posto gli immigrati di qualsiasi generazione,  adesso scopre che questa meravigliosa integrazione è fallita? Che i nuovi francesi non si sentono francesi bensì parte dei loro Paesi di origine?

In realtà il recupero della propria origine e appartenenza vale solo nel migliore dei casi. Perché, nel caso della feccia che si dedica alla criminalità, l’unica appartenenza è quella ai clan di delinquenti di ogni colore. Non si spaccia e non si rapina nel nome dell’Islam, dell’Algeria, della Colombia o dell’Ucraina. Se esiste un modello comune, tra tutti loro, è quello statunitense.

E l’appartenenza o la non integrazione è solo l’alibi per frignare davanti alle telecamere le rare volte in cui la giustizia decide di intervenire.

Ma il disastro francese dovrebbe rappresentare un monito anche per l’Italia. Dove i rapper (non tutti, ovviamente) sono perfettamente identici a quelli transalpini. E come loro sono perfettamente liberi di fomentare odio, violenza, delinquenza. Di trasformarsi in eroi mediatici difesi da politici e giornalisti che vanno in TV a spiegare che, poverini, sono vittime dell’incomprensione, della mancata integrazione. Perché, dopo il diritto all’eleganza in stile Soumahoro, esiste anche il diritto ai soldi facili attraverso la delinquenza, ma solo se sei di origine straniera.