L’attacco lanciato da Hamas a Israele è di una violenza e di una gravità tale da superare e minimizzare qualsiasi considerazione politica attinente al “prima”: l’occupazione indebita. Questo perché Hamas è un movimento terroristico e ha fatto quel che fanno i movimenti terroristici: uccidono, feriscono, rapiscono. Hamas non ha bisogno di una scusa per ‘’danneggiare Israele’’ e ‘’assassinare gli israeliani’’. Hamas non si considera vincolato dallo stato di diritto internazionale. Sta combattendo una guerra santa, una jihad. Una conferma puntualmente arrivata via la rete con la dichiarazione di Mahmoud Al-Zahar, dirigente e co-fondatore di Hamas: «Israele è soltanto il primo obiettivo. L’intero pianeta sarà sotto la nostra legge, non ci saranno più ebrei o traditori cristiani». Il 7 ottobre è stato per Israele come l’11 settembre per gli USA: una data incancellabile, a prescindere da come andrà a finire. Un attacco che ha spazzato via 75 anni di storia tormentata, di ricerca di ‘’pace’’, che umilia le vittime, che travalica i torti e le ragioni, ma che arma anche gli indecisi, che calpesta il dolore e la dignità delle popolazioni civili, ancora una volta sopraffatte dalla follia e dal fanatismo di gruppi armati islamici da un lato e di gruppi di potere dall’altro, categorie che a volte coincidono. I confini di questo nuovo/antico conflitto devono essere ancora disegnati con chiarezza, e molti giorni passeranno prima che la nebbia si diradi.
Ed ecco che superato lo shock iniziale della portata e della gravità dell’azione terroristica essa svanirà e i leader mondiali che oggi condannano fermamente Hamas inevitabilmente tireranno fuori i loro stanchi ammonimenti a Israele affinché interrompa quella che, per numero di morti civili, non definiranno più “risposta proporzionata”. «Ammonimenti», mentre la scossa della guerra travolge l’intero Medio Oriente, dove nessuna nazione potrà voltarsi dall’altra parte, con il timore, o meglio il terrore, dell’innesco di un effetto domino che comunque porterà distruzione e dolore, fin dove, chissà.
Alla domanda allora sul perché Israele e Hamas non si siedano e parlino invece di uccidersi a vicenda, la risposta è chiara – almeno a chi scrive – : “Per la stessa ragione per cui gli Stati Uniti e al-Qaeda non possono discutere e scendere a compromessi”. Le organizzazioni islamiste, jihadiste e terroristiche, bracci armati dell’organizzazione Fratelli Musulmani, non mirano a un gentlemen’s agreement, a una stretta di mano. Israele in passato era riuscito a porre fine ai round di ostilità da Gaza consentendo un afflusso di denaro del Qatar e permettendo a più lavoratori palestinesi di Gaza di entrare in Israele sulla base della teoria che ciò avrebbe alleviato le difficoltà economiche complessive lì e quindi ridotto la tensione e la probabilità di attacco. Così non è però stato.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva scommesso sul principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, con un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita inteso a garantire lidi politici sicuri. Ma è proprio questo l’obiettivo di Hamas: bloccare l’accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita, anzi farlo saltare. Un accordo, fortemente voluto dagli Stati Uniti (che dal 2020 ha mediato per far ottenere a Israele “riconoscimenti” con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan) che veniva presentato dallo stesso Netanyahu con parole che, a leggerle oggi, suonano come un paradosso: «Questa pace con l’Arabia Saudita farà molto per porre fine al conflitto arabo-israeliano e incoraggerà altri Stati arabi a normalizzare le loro relazioni con Israele», aveva annunciato agli inizi di settembre il premier israeliano. «L’accordo incoraggerà una più ampia riconciliazione tra ebraismo e islam, tra Gerusalemme e la Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele. La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà davvero un nuovo Medio Oriente: mentre il cerchio della pace si espande, un percorso verso una vera pace con i palestinesi può finalmente essere raggiunto». Non è andata così. Quell’accordo ch’era così vicino, in cui c’era molta fiducia, oggi è morto. Ecco la vittoria di Hamas.
La Casa Bianca è vero che ha promesso aiuti militari a Israele, ma al tempo stesso sta lavorando freneticamente a “ricucire” un tessuto diplomatico in grado di resistere alla pressione che l’azione militare israeliana su Gaza pone. Ed è in quest’ottica che vanno inserite le telefonate tra il Dipartimento di Stato americano e alcuni paesi-chiave della regione: Egitto, Qatar, la stessa Arabia Saudita, perfino la Turchia, che in un futuro più o meno immediato potrebbe acquisire un importante ruolo di mediazione.
E dunque ora?
Due elementi appaiono evidenti: l’azione di Hamas non è stata estemporanea, ma è frutto di un piano (con chi è ancora da stabilire) per far saltare l’accordo di normalizzazione fra Israele e Arabia Saudita , il primo; secondo punto: la reazione furibonda di Israele era più che prevedibile. Spero solamente che non ci sia un terzo elemento: l’escalation, che però sembra inevitabile. Ecco perché Israele deve uscire da questo vicolo cieco in cui si è cacciata con la sua azione, tanto giusta quanto legittima, di ‘’distruggere Hamas’’ ma non quella di distruggere Gaza. Anche la vendetta più feroce può e deve offrire garanzia di soluzione.
Israele può portare avanti una guerra totale contro Hamas, certamente, ma in modo strutturale e mondiale coinvolgendo l’Occidente e i Paesi Arabi. Ma affinché Israele ottenga pace e stabilità a lungo termine, l’unica via percorribile è un accordo politico reciprocamente accettabile con i palestinesi, sottoscritto da un più ampio accordo regionale. La formula della “soluzione a due Stati”, che per lungo tempo era stata propagandata come l’unica soluzione possibile, oggi giace a brandelli. Nemmeno la maggioranza dei palestinesi, frustrati dalla sempre crescente emarginazione economica e politica, ormai la sostiene. Ecco perché Israele dovrebbe aprire un canale di dialogo con l’Iran per stabilire linee rosse e restrizioni reciprocamente accettabili. Gli Stati Uniti, che vedono l’Iran come un nemico e si coordinano strettamente con Israele per punire l’Iran per le sue “attività maligne”, devono invece rendersi conto che questa pressione non sta aiutando a spegnere le fiamme nella regione. Ed è proprio l’Arabia Saudita, che ha stretto un riavvicinamento con l’Iran e sta cercando limitate concessioni israeliane per i palestinesi al fine di normalizzare le sue relazioni con Israele, che può svolgere un ruolo costruttivo, un nuovo approccio basato sulla moderazione reciproca e sulla concordia regionale. Questa è l’unica via d’uscita da questo vicolo cieco. Qualsiasi altro obiettivo sarebbe una sconfitta sia per Israele, sia per i palestinesi, sia in costi umani e l’eliminazione fisica dei combattenti di Hamas a Gaza potrebbe perciò rivelarsi nel medio-lungo termine una vittoria di Pirro.
Ma tutto è ancora ipotetico e gli scenari futuri tutti da disegnare, compreso il destino dei 2 milioni e mezzo di civili di Gaza già oggi allo stremo, il che non deve rallegrarci, perché tale situazione favorisce a livello internazionale quanti vorrebbero cancellare la presenza di Israele, che invece – è giusto ribadirlo – ha tutto il diritto all’esistenza; favorisce il fondamentalismo islamico che, come abbiamo visto in questi tre mesi, ha guadagnato molti fiancheggiatori anche in Europa come negli USA, soprattutto tra le forze di sinistra, e nessuno sembra accorgersi di questa grave minaccia. Una minaccia che accresce l’instabilità e la conflittualità non solo in Medio Oriente.
Marco Affatigato