Eravamo noi, quelli “dalla parte sbagliata”, quelli “usciti dalle fogne”, quelli dove ucciderci non s’incorra in reato. E c’eravamo tutti. Abbiamo sfilato in silenzio illuminando la notte meneghina con le nostre torce accese in mano, affinché la fiamma della memoria, la nostra Fiamma! Non si spenga mai ardendo non solo sulla nostra facoltà di ricordare, ma che sia da monito per il futuro.

E che risplenda ancora in questo oggi dove slogan assassini pare che siano tornati di moda, tra queste orde di telecomandati sbarbatelli dai cori tribali come: il maresciallo Tito ce l’ha insegnato, uccidere un fascista non è reato”. Cantato a squarciagola a Firenze da questi idioti, accompagnati in corteo dai ghigni compiaciuti di Ely Schein e Giuseppe Conte, con il sindaco Nardella ed il compare Sala a fare loro da paggetti. E’ accaduto a Firenze il 4 marzo scorso e ripetuto a Milano, Roma e Napoli, nei giorni successivi. Imbecilli al servizio di chi infiamma le piazze in cambio di un voto. Come fu per Sergio Ramelli gli assassini hanno mille facce, poiché oltre gli esecutori stanno dietro i mandanti morali, sempre pronti a scagliare il sasso nascondendo la mano. Il maresciallo Tito ce l’ha insegnato… al solo pronunciarne il nome, di quel bieco criminale sanguinario, provo un disgustoso senso di ribrezzo. Offesa più sporca non potevano immaginarla. Esaltare quella turpe figura non è solo un giustificativo per i crimini commessi, ma bensì è un’altra foiba in più. E fa male. Ma se la memoria corre al passato guardo il presente con occhi attoniti per questo antifascismo ripetuto ad ogni piè sospinto, ed in ogni dove, capace di frantumare i testicoli pure al David marmoreo di Michelangelo. Parlassero dei problemi, per Bacco! Di questo Belpaese in ginocchio dove la violenza alberga in ogni strada; dove la droga uccide i miserabili ingrassando gli avvoltoi; dove abbiamo affrontato una pandemia inseguiti dagli elicotteri sulle spiagge deserte nel mentre mancava il piano pandemico e le mascherine erano una chimera! Parlassero del come siamo potuti arrivare a non avere più un’eccellenza italiana nel campo industriale; parlassero di una scuola politicizzata capace solo di sfornare ignoranti a ripetizione; parlassero di quest’euro non voluto dal Popolo, poiché non fu per volere referendario, e della presa per i fondelli di chi spergiurava che avremmo lavorato un mese in meno per… Parlassero di questo, assumendosi la responsabilità per la caduta verticale in economia, nei valori, nella italianità. Viceversa si balla sulle note stonate dell’antifascismo e le Forze dell’Ordine sono brave solo quando non reagiscono alle botte prese! Se dovessero rimanere ferite, come accaduto a Milano e Roma, eh beh, fa parte del loro mestiere! E’ questa l’Italia che vogliamo? Una Nazione dove hai paura pure di entrare in una qualsiasi stazione ferroviaria ritenendoti fortunato se soltanto dovessero rubarti il portafoglio! Un Italia dove se entrassero dei malviventi in casa non dobbiamo reagire in alcun modo per il timore di dovergli pagare una retta a vita. L’Italia dalla pensione post mortem (ma non dovevano pagarla qualcuno, signora Boldrini?) l’Italia dove chi delinque è perdonato, ma se non pagasse le tasse su uno scontrino del caffè è pronto il patibolo. L’Italia dei loro conti in Svizzera e della lista Mitrokhin. E’ l’Italia antifascista. E’ la loro Italia, signori, quella voluta e disegnata dalle mani nascoste dei fautori di questo antifascismo perpetuo. Sed lex, dura lex. Sempre che sia da una parte sola, la loro, s’intende.
Sergio, c’eravamo proprio tutti, mancava solo la Giustizia, perché ricordarti, Sergio, significa rinnovare un dramma che abbiamo nel cuore, formato da un dolore acuto e denso, aggravato dal peso di un’ingiustizia. Sergio, c’eravamo proprio tutti a piangere i tuoi diciotto anni spezzati dall’odio politico da assassini riconosciuti ma mai puniti, però i dimenticati muoiono due volte, i ricordati non muoiono mai e noi c’eravamo tutti nel tuo ricordo. Ripenso alla frase di Voltaire –non sono d’accordo con le tue parole ma mi farei uccidere affinché tu le possa dire- una frase inutile finché uccidere un fascista non sarà reato. E la chiamano democrazia. Guai a salutare con braccio alzato, siamo punibili per Legge. Apologia di reato per noi, libertà di uccidere per loro. Rimanendo impuniti, loro, per legge.
Sergio Ramelli: Presente!
La fine vita di Sergio Ramelli, avvenuta a Milano il 29 aprile 1975 all’età di 18 anni, presenta molte analogie con la tredicenne Giuseppina Ghersi. Ambedue furono condannati dall’odio rosso per un tema in classe. Giuseppina Ghersi fu prelevata da tre partigiani, picchiata e seviziata, forse violentata, davanti alla madre e al padre che scrisse come gli uomini la presero a calci ”giocando a pallone con lei” fino a ridurla in stato comatoso. Qualche anno dopo, L’Anpi, per bocca del suo presidente provinciale di Savona Samuele Rago, tentò di giustificare l’aberrante delitto con queste parole: “Giuseppina Ghersi, al di là dell’età, era una fascista. Eravamo alla fine di una guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili. Era una ragazzina, ma rappresenta quella parte là”.
Soltanto 6 anni fa l’amministrazione del comune di Savona, a guida PD, ha negato la dedica di una piazza a Giuseppina Ghersi.
Sergio Ramelli, pure lui “colpevole” di un tema scolastico, fu aggredito alle spalle dai sicari il 13 marzo del 1975. Gli assassini: Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari, inferirono su di lui colpendolo più volte in testa con la chiave inglese Azet 36. Gli spappolarono il cervello. Sergio morirà dopo 47 giorni di agonia senza più riprendersi. Al suo funerale, in una strada adiacente, i compagni intonarono un coro di scherno: Azet 36, fascista dove sei? Oggi Claudio Scazza è l’attuale primario del reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano; stessa carriera ospedaliera per Antonio Belpiede, primario ospedaliero di ginecologia a Barletta; Giuseppe Ferrari Bravo, esecutore materiale dell’omicidio insieme a Marco Costa ed unico pentito del gruppo, è un giornalista del quotidiano comunista Liberazione.
La settimana successiva al vile massacro, durante il Consiglio comunale a Palazzo Marino amministrato dall’allora sindaco Aldo Aniasi, prese la parola il Consigliere di minoranza Tomaso Staiti di Cuddia, eletto nella lista del M.S.I., il quale “osò” riportare all’attenzione del Consiglio l’aggressione subita da Sergio Ramelli. Fu l’ultima offesa ricevuta da Sergio: Tomaso Staiti fu zittito dai fischi di parte del pubblico e dagli applausi divertiti dei consiglieri comunisti.
Durante il processo agli assassini la madre di Sergio, Anita, rifiutò il risarcimento di 200 milioni proposto dagli avvocati dei criminali.
LO rifiutò perché uccidere un fascista E’ UN REATO. Ieri, come oggi. E Anita Ramelli lo sapeva per averlo vissuto perdendo il figlio di 18 anni.
Marco Vannucci