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Pietro Chesi, l'epopea eroica del ciclismo italiano

Anche in questa edizione dei giochi olimpici estivi, in corso a Rio de Janeiro, in Brasile, l’Italia si piazza subito nella fascia alta del medagliere, eccellendo dal canottaggio alla scherma, dal fioretto alla carabina, dalla ginnastica artistica al judo fino al nuoto, fatta eccezione per il ciclismo su strada. Disciplina in cui l’Italia, da sempre vanta uno straordinario palmares.
Prima ancora dello scoppio del secondo grande conflitto mondiale, che certo non interruppe quel che allora era considerato lo sport nazionale per eccellenza, il ciclismo veniva osannato dalle grandi folle che in esso partoriva gli eroi del tempo, molti dei quali poi morti sul fronte. Che si trattasse di grandi classiche o competizioni internazionali, l’insieme di emozioni e suggestioni che nascevano dall’incontro del ciclismo eroico con le storie del conflitto, sorto da lì a pochi anni, si fecero intense. La bicicletta divenne simbolo importante per la memoria post-bellica, elogiata indirettamente anche da Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi. 
E’ proprio in quegli anni, negli anni del ciclismo eroico fatto di strade polverose e senza asfalto, di corridori sudici e neri di terra che con le loro gesta infiammavano gli animi della folla e degli italiani, che nasce la storia del ciclismo italiano come segno di rinascita di quella nazione più volta trafitta dalla guerra e dalla fame. E con essa nasce la favola di uno sconosciuto che, a colpi di pedale, batte e beffa i campioni di allora rifilando loro una bellissima e indimenticabile vittoria alla XX Milano-Sanremo del 1927.
Quello sconosciuto fu Pietro Chesi da Gambassi, di Firenze. Una città che, con l’andare degli anni, si sarebbe mostrata affamata e annientata dalla guerra, duramente colpita dai bombardamenti degli alleati che in seguito tentarono di liberarla – assieme al resto d’Italia – dal regime fascista che tanto per quella città, nel bene e nel male, aveva fatto. Chesi lo sapeva, lui che era nato da una famiglia povera ma ricca d’ideali. Cresciuto con il ciclismo nel cuore e nelle gambe, aveva imparato a guadagnarsi le cose con le proprie forze.
Grandi polmoni e tutto muscoli, aveva conquistato la sua prima gara a ventidue anni, a Montignoso, con una bicicletta normale, di quelle che suo padre, boscaiolo in quel piccolo sobborgo toscano, usava per recarsi al lavoro. Soprannominato il “diavolo rosso”, fin da giovane si era messo in luce per il suo coraggio, la sua determinazione e la sua forza, tra i ranghi della società sportiva U.S. Castelfiorentino. Tre anni dopo, avrebbe vinto la Milano-Sanremo con una bicicletta da corsa in grado di scaraventarlo là, dove solo i più grandi risiedono.
Classe 1902, fu acclamato dalla stampa come “Il campione della Tripolitania”, lui che correva senza parafango e divorava le montagne, sudicio di un nero fango che lo rese famoso in un aneddoto del Conte del Tiferno, la odierna Figline-Valdarno. Proprio nel 27’, al traguardo di una memorabile corsa, alcuni spettatori lo videro fermarsi poche centinaia di metri prima del traguardo per slacciarsi lo scarpino. La mente dei presenti pensò a crampi, essendo che non aveva né mangiato, né bevuto, affondando la montagna con il rapporto da pianura, – al tempo ci si sarebbe dovuti fermare per effettuare il cambio del pignone della ruota, inserito assieme a quello da montagna sul lato sinistra della ruota posteriore – ma non furono né i crampi né la fatica il motivo del suo stop, bensì una scommessa pattuita nei confronti di Alfredo Binda, con il quale aveva scommesso di batterlo con una gamba sola.
Tenace e testardo aveva tanto di diverso dai campioni del tempo. Distante da Coppi nelle sembianze, nelle foto dell’epoca, ci appare tutto meno che un gigante. La vittoria del 27’ alla Milano-Sanremo fu il capolavoro di tutta una vita, memorabile al pari di un’olimpiade per gli sportivi del tempo. Tutti si aspettavano il suo crollo in quella corsa, ma lui, dopo duecentoquindici chilometri di fuga e alle spalle 9 ore e 43 minuti di gara in solitaria, da eroico militare appartenente alla I Legione della Milizia Ciclistica, tagliò il traguardo consacrandosi campione.
La sua prima e ultima vittoria prima della cattura, ad opera dei partigiani antifascisti, il 15 agosto del 1944. Dopo una prima liberazione “per grazia”, fu nuovamente catturato e giudicato colpevole di pratiche delatorie e collaborazionismo al regime e alle forze dell’RSI. Fu pertanto fucilato, senza un reale processo a suo carico, in Piazza della Signoria a Firenze.
A testa alta, il famoso “diavolo rosso” periva questa volta per mano di un nemico interno. Senza possibilità di fuga, l’eroico campione che tanto aveva regalato alle folle, veniva ucciso senza possibilità di rivincita. Questa volta, neppure la più ardua delle montagne sarebbe stata tanto più indomabile.
di Giuseppe Papalia
 

Riguardo l'autore

giuseppepapalia

Classe 1993. Giornalista pubblicista, consulente di comunicazione per i deputati al Parlamento europeo, corrispondente da Bruxelles. Una laurea in scienze della comunicazione e una magistrale in giornalismo con indirizzo “relazioni pubbliche” all'Università degli studi di Verona. Ha collaborato con alcuni giornali locali, riviste di settore e per alcune emittenti televisive dalle istituzioni europee a Bruxelles e Strasburgo. Con TotalEU Production dal 2019, ho collaborato in qualità di social media manager e consulente di comunicazione politica.