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Cultura

Genesi ed eclissi dell’anima nell'era moderna (in cui viviamo come se non dovessimo morire mai)

L’anima non esiste, di conseguenza il dualismo su cui si fonda tutta la nostra civiltà occidentale (e che vede per l’appunto confrontarsi anima e corpo) cessa di avere un significato.

Sono queste le parole lapidarie pronunciate dal filosofo Galimberti durante il suo intervento al Festival della Bellezza di quest’anno, a Verona, al termine di quel viaggio storico, lungo secoli, fatto fare al suo pubblico e destinato ad approdare all’amara conclusione appena citata.

Ma cosa s’intende con il termine anima?

Il termine “anima” che traduce quello che Platone aveva chiamato psuchè, non condivide con l’antenato greco il concetto originario: per Platone l’anima non aveva nulla a che vedere con l’interiorità e la soggettività individuale, ma bensì con la sfera più alta della conoscenza, ossia con la conoscenza oggettiva, che trascendeva dalle percezioni legate al corpo, che erano certamente imperfette poiché tanto numerose e diverse quanto i corpi degli uomini. Dell’anima interiore e impalpabile, decantata dai poeti di ogni secolo, non troviamo traccia.

Ma questo non deve stupire se ricordiamo come la civiltà classica assunse come modo proprio per raggiungere la felicità l’auto-realizzazione, che si poteva ottenere soltanto conoscendo sé stessi, il proprio daimon interiore e soprattutto i propri limiti, che per nessuna ragione (pena la rovina) dovevano essere superati, ecco che il limite per eccellenza da non valicare mai era quello della morte, la pretesa cioè dell’immortalità: l’uomo greco accetta a priori la morte, sapendo che quella sarà la sua fine definitiva e il suo punto di arrivo, non si abbandona a nessuna speranzosa visione di una vita futura dopo il termine di quella terrena.

Continuando, neppure nelle tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e islamismo) si parla di anima immortale e trascendente: tutte quelle parole che vengono così tradotte fanno in realtà riferimento a parti del corpo ben precise e concrete, o per fare un esempio sicuramente noto ai più, ed estremamente chiaro, nella professione di fede cristiana (il Credo) non si parla di immortalità dell’anima, ma bensì di resurrezione dei morti: eccoci di nuovo nella dimensione della materialità corporea.

L’introduzione di un’idea di anima, così come la conosciamo noi oggi, la si deve al vescovo Agostino, che riprendendo Platone tradusse quella psuchè citata proprio con anima in senso moderno, connotandola perciò di tutti quei caratteri che conosciamo: immortalità, interiorità e opposizione alla carnalità. 

Evidente dunque come uno dei principi fondanti della nostra esistenza si regga su un’interpretazione costruita a pennello del testo greco a supporto della religione cristiana. Nonostante ciò, ossia nonostante la sua inconfutabile mancanza di basi storiche su cui poggiarsi, il concetto di anima immortale ha dato speranza a milioni di individui  nel corso dei millenni, facendosi prepotentemente vera non in quanto tale, ma a causa della potenza che ha avuto, e che ha tutt’ora, nel plasmare l’immaginario dell’Occidente.

Restiamo tutti convinti infatti, anche dopo aver avuto la possibilità di scoprire l’infondatezza di una simile idea, di non essere solo degli “involucri” vuoti, ma esseri dotati di un’anima che ci garantisce di poter sconfiggere la morte. Alla faccia della civiltà greca.

di Isabella Mora