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Afghanistan: una guerra non si vince senza conquistare il cuore della gente

Il 2018 si è aperto con due gravissimi attentati che hanno visto, ancora una volta, la popolazione dell’Afganistan vittima della nuova guerra tra i talebani e l’ISIS. Era il 7 ottobre 2001, quando la coalizione a guida degli Stati Uniti lanciò l ‘Operazione Enduring Freedom, la quale prevedeva il supporto alle milizie anti-talebane dell’Alleanza del Nord con l’obiettivo di far cadere il regime di Kabul, accusato di aver aiutato Al-Qaeda nell’attacco al World Trade Center dell’11 settembre.
La vittoria della coalizione fu rapida grazie all’utilizzo delle più recenti innovazioni belliche e tecnologiche e delle forze speciali in ausilio al Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan.  Una volta vinta la guerra, però, è necessario ricostruire il paese e da questo preciso momento emergono tutti i limiti della coalizione, la quale doveva conquistare la fiducia del popolo afgano e collaborare con esso per costruire un pacifico e democratico futuro, ma ben presto i talebani tornarono a compiere violenze e attentati.
Secondo l’esperto di contro-insorgenza australiano, David John Kilcullen, gli Stati Uniti hanno mostrato di non essere in grado di imparare dagli errori del passato, non sono in grado di contrastare efficacemente l’insurgency. Questo perché lo stile americano non presenta alcuna connessione tra strutturale tra gli obiettivi politici e quelli militari, è a-strategico poiché i militari si concentrano nell’applicazione delle direttive politiche trascurando la dimensione strategica. Inoltre, questo stile è anche a-politico in quanto gli americani quando scendono in guerra lo fanno con l’obiettivo della vittoria totale senza, però, curarsi della conseguenze ex-post. Secondo l’autore australiano il metodo più efficace per contrastare l’insurgency è la conquista dei cuori e delle menti della popolazione, ma per fare questo è necessario prima di tutto garantirgli la protezione e la sicurezza, in questo modo sono gli stessi locali che spontaneamente collaborano con i soldati fornendo preziose informazioni. Le forze occidentali, inoltre, devono proporre un’offerta ideologica che sia più efficace di quella dei ribelli che promettono indipendenza e uguaglianza sociale. Alle promesse, di breve termine, degli insorti, gli occidentali contrappongono il nation building, il quale però è un processo di lungo termine che richiede notevole tempo e risorse, causando, a volte, malcontento all’interno dei paesi impegnati in tale opera.
Nella pratica, infatti, gli Stati Uniti hanno posto grande attenzione alla potenza di fuoco, quando, invece, nella guerra asimmetrica sarebbe meglio limitare l’uso della forza per evitare di alienare il consenso della popolazione locale, inoltre il massiccio utilizzo di forze impiegate danneggia la legittimità del governo che si vuole sostenere che viene visto come una sorta di fantoccio nelle mani degli stranieri. Infine, la riluttanza da parte dell’opinione pubblica ad accettare le perdite comporta un massiccio utilizzo di tecnologie che allo stesso tempo alienano i contatti con la popolazione civile limitando drasticamente la capacità di conquistarne cuore e menti.
Questi errori hanno permesso ai talebani di sostituirsi in alcune aree al governo legittimo di Kabul, anzi, con il ritiro graduale delle forze occidentali  di controllare porzioni sempre maggiori di territorio. Il dialogo tra Kabul ed gli insorti, già molto complesso, è divenuto ancor più complesso con l’entrata in scena di un terzo attore: lo Stato Islamico. Hibatullah Akhundzada nuova guida talebana, a seguito dell’uccisione di Akhtar Mansour, dovrà fare notevoli sforzi per mantenere uniti i comandanti ed evitare che migrino sotto l’ISIS. In modo da essere l’unico interlocutore credibile con il Governo per poter avviare un dialogo volto a garantire la pace in una nazione da ormai due decenni in guerra.
Stefano Peverati