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Eurozona

Il neonazionalismo tedesco dietro la retorica europea

Non c’è molto da dire in proposito. E’ ormai chiaro che dietro la retorica dell’Unione Europea, del debito brutto brutto e del deficit ancora più brutto, si celino le mire neonazionaliste tedesche. Il Re è nudo e lo è da un po’, solo che quelli che tifano Europa, cercano in ogni modo di nascondere l’evidenza drammatica, alimentando la paura (e la balla) di un ritorno dei nazionalismi. Ma quello che loro chiamano nazionalismo in realtà è una rivendicazione diversa che nulla ha a che fare con i vari fascismi di cui si riempiono la bocca: è la rivendicazione della sovranità, dell’indipendenza e dunque della democrazia custodita nelle Costituzioni nazionali, messa in pericolo proprio dall’Unione Europea.

Dunque tutto l’opposto dei nazionalismi dai quali ci vorrebbero mettere in guardia e con uno scopo preciso: nascondere la verità, e cioè le mire espansionistiche economiche (e dunque egemoniche) della Germania sul vecchio continente. E non è un caso che la politica dell’euroburocrazia, oggi, sia pesantemente (ed è già questo un eufemismo) condizionata da Berlino. Le regole sul Fiscal Compact, il Fondo Monetario Europeo e l’idea del debito pubblico come schuld, e cioè come peccato da emendare con il rigore e la deflazione, rispondono alla visione tedesca (e in generale nordica e protestante) dell’economia e del mondo, e sono un ottimo strumento di sottomissione dei paesi europei, soprattutto di quelli potenzialmente concorrenti, come l’Italia.

Lo schuld è perciò un’arma particolarmente raffinata che richiede da una parte la piena operatività delle quinte colonne nei paesi da demolire economicamente, una cultura diffusa di demonizzazione del debito pubblico e della spesa pubblica (soprattutto a livello di istruzione universitaria), e dall’altra richiede una pregnante retorica politica che indichi nel rigore e nella mortificazione economica la via stretta della redenzione.

«There is not alternative», direbbe Margareth Thatcher che aveva però subodorato la fregatura dell’Unione Europea e dell’unione monetaria, tanto da mettersi di traverso rispetto all’adesione della Gran Bretagna all’euro.

In questo quadro si innesta la necessità che i paesi da egemonizzare e rendere colonie economiche (soprattutto di manodopera a basso prezzo) siano progressivamente deindustrializzati e resi inoffensivi attraverso una sistematica demolizione delle garanzie costituzionali sociali (stato sociale, istruzione pubblica). E ciò non poteva che essere fatto tramite una moneta unica basata sui cambi fissi e le rigide regole del bilancio che inibiscono qualsiasi intervento statale in economia; il tutto in ossequio alle ferree regole ordoliberiste, di cui lo schuld è il substrato morale e filosofico giustificatorio.

Ma è chiaro che questo non basta. La Germania, il debito come peccato e infine l’ordoliberismo rispondono perfettamente al perseguimento di uno scopo più grande e globale: distruggere le democrazie, distruggere le identità dei popoli, distruggere dunque la coesione sociale legata alle radici comuni, alla condivisione di usi, lingue e costumi. Distruggere, in ultimo, la solidarietà sociale cristalizzata nelle Costituzioni nazionali.

Ergo, il progetto neonazionalista tedesco diventa la testa d’ariete per creare un’Europa globalizzata, controllata dalle élite finanziarie attraverso un sistema tecnocratico che sterilizza i processi democratici e garantisce la stabilità delle rendite da capitale per mezzo del meccanismo della deflazione salariale. La quale viene rafforzata da una parte dall’istituzionalizzazione del livello disoccupazionale minimo, oltre il quale non bisogna scendere; e dall’altra, attraverso l’incentivazione delle migrazioni di massa che se per un verso contribuiscono a creare una società composita, scollata e stratificata su base etnica (e questo impedisce la coesione sociale e annichilisce l’identità nazionale), per l’altro abbattono notevolmente il costo del lavoro nella conflittualità tra lavoratori autoctoni e immigrati, favorendo peraltro le migrazioni di manodopera qualificata dai paesi “colonizzati” al paese “colonizzante”.

Per molti è difficile comprendere che il degrado economico, sociale e politico a cui assistiamo e di cui siamo vittime da una trentina d’anni, è il prodotto di questo progetto neonazionalista preceduto e seguito da una martellante propaganda culturale, economica e politica che ha additato lo Stato e l’interventismo statale in economia come il male assoluto. Una propaganda velenosa che, mutuando le regole della microeconomia, ha instillato nelle menti l’idea che la protezione sociale, la solidarietà sociale, la spesa pubblica e il debito siano un ostacolo allo sviluppo economico, e che la Costituzione italiana sia vetusta nei suoi principi fondamentali, tanto da essere il vero ostacolo al benessere sociale che solo l’iperliberismo regolato (l’ordoliberismo) può perseguire.

Chiaramente è un falso. E seppure con grande difficoltà, l’inganno pian piano sta emergendo in tutto il suo splendore, almeno per chi vuole vederlo. La Matrix, in questi termini, sta perdendo colpi e sempre più persone si (ri)destano dal torpore in cui ci hanno scaraventato in questi decenni grazie all’insana propaganda secondo la quale se esiste colpa per il nostro malessere (schuld), quella colpa è dovuta alla spesa, alla corruzione che gravita intorno alla spesa pubblica, e dunque al debito per finanziarla. Quelli che si liberano dalla vischiosità della retorica europeista, iniziano così a intravedere il disegno egemonico e il progetto più grande, realizzando pienamente che non esiste via di salvezza nell’austerità e nel rigorismo finanziario, i quali favoriscono semmai solo le grandi rendite da capitale, deprimendo i redditi e il lavoro, e dunque il benessere delle generazioni future.

Se qualcuno pensa seriamente che il debito pubblico sia un danno… o meglio il peccato che grava sulle generazioni future, non immagina lontanamente che condanna (überzeugung) sia l’austerità che priva le persone non solo di un reddito presente e dunque di una pensione futura, ma anche della propria identità e dignità.