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Pensieri in Libertà

ICI: continua lo scontro tra Europa e Chiesa

Nei giorni scorsi ha fatto scalpore la sentenza della Corte UE che ha stabilito che l’Italia debba recuperare dalla Chiesa l’Ici non versata tra il 2007 e il 2011 per un valore di circa 4 o 5 miliardi, secondo i dati diffusi dall’Anci. 
Una letterale “stangata” per la Chiesa, che vedrebbe le proprie casse depauperarsi per una tassa riscossa con circa 10 anni di ritardo. La domanda da porsi, tuttavia, è un’altra: se l’Unione Europea ritiene che la Chiesa debba essere tassata come un qualunque privato, perché non si occupa lei direttamente della gestione di tutte quelle attività sulle quali la Chiesa dovrebbe pagare l’Ici?
Secondo la UE infatti per appianare disagi, ritardi nell’erogazione dei servizi o assenza di reale concorrenza nei settori dove lo Stato occupa una fetta maggioritaria del mercato, è sufficiente elargire regalie note come fondi europei. Per il settennato 2014-2020 l’Italia ha diritto a dei fondi per una somma di 73,67 miliardi di euro. Una somma non di poco conto ma che è rimasta molto spesso intoccata. 
Come fosse un tesoro dell’epoca corsara, che veniva prima derubato e poi seppellito affinché nessuno della ciurma ne potesse usufruire in solitario, di questi 73,67 miliardi sono stati impegnati al dicembre 2016 solo 27,103 e addirittura quelli definitivamente spesi sono solo 2,45 miliardi, circa la metà di quanto viene oggi chiesto alla Chiesa.
Si potrebbe obiettare che il ritardo nell’impegno e nella spesa accomuna anche altri paesi dell’Unione Europea e non si commette certo il peccato di falsa testimonianza nel dire questo, ma bisogna vedere le percentuali per valutare serenamente se il problema sia prima italiano o prima europeo. La media europea dei fondi impegnati si aggira intorno al 44% e la media della spesa è del 6%; in Italia i fondi impegnati sono il 36,79% (circa sette punti in meno rispetto all’Europa) mentre quelli spesi sono il 3,33%, circa la metà della media europea. 
Nel frattempo, la Chiesa arriva con successo dove lo Stato fa molti “buchi”. Senza voler prendere ad esempio il curioso caso del San Raffaele, accreditato da più parti come una delle eccellenze sanitarie non solo italiane ma europee, è infinitamente esteso l’elenco di scuole, ospedali e strutture di assistenza sociale di proprietà della Chiesa che permettono ai cittadini italiani di avere un servizio di elevata prestazione dietro il pagamento di un costo che consenta il prosieguo dell’attività.
Anche nel mercato privato la Chiesa si è saputa muovere in modo diligente. È il caso della FAAC, nota azienda bolognese attiva nel settore dei cancelli automatici, posseduta al 66% dall’Arcidiocesi di Bologna. Il comportamento di questa particolare azienda è tale che la parte di dividendi destinata all’Arcidiocesi viene destinata non alle spese correnti della Curia, quanto piuttosto al finanziamento di progetti virtuosi per arginare i disagi sociali all’interno del territorio di competenza dell’Arcidiocesi. 
Quale struttura italiana, pagante l’Ici, sa fare tutto questo? Quale azienda pubblica (o anche privata) sa combinare la tenuta economica – mantenendosi all’interno dei parametri fiscali – sostenendo anche dei progetti di crescita sociale? Cosa fa l’Unione Europea, oltre a elargire soldi alla “macchina Stato” che poi li redistribuisce alle “macchine Regioni” e via discorrendo con il consueto sistema di scatole cinesi che porta, alla metà del settennato, a una perdita (anzi, peggio, a un non-usufrutto) di oltre 40 miliardi di euro?
Secondo i Radicali, riscuotendo l’Ici non pagata dalla Chiesa sin dal 1994, la stessa dovrebbe allo stato italiano una cifra vicina ai 15 miliardi di euro, poco più di un terzo di quanto non è stato ancora nemmeno impegnato dei fondi europei per il periodo 2014-2020. Una cifra che copre un quarto di secolo tocca al limite il terzo di un settennato. 
Se l’Europa ha un problema con la Chiesa cattolica, forse per un retaggio derivato dal protestantesimo nord-europeo o per quel sentimento ateistico emerso dalla Francia negli ultimi anni, sia l’Europa ad accettare che esistono sistemi dove organizzazioni sovranazionali sanno muoversi intelligentemente nel mercato. E tengano conto che Koen Lenaerts, il Presidente della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, è arrivato dove è arrivato studiando e insegnando alla Katholieke Universiteit Leuven, l’università cattolica in lingua fiamminga di Lovanio, nel civilissimo Belgio.

Riccardo Ficara Pigini