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Cultura

Società e paure: Zygmunt Bauman a Firenze

Si è concluso in bellezza l’ultima edizione del Festival delle Generazioni tenutosi a Firenze dal 13 al 15 Ottobre: proprio nella giornata di sabato, infatti, il Teatro Verdi ha ospitato uno dei più grandi sociologi contemporanei, il polacco Zygmunt Bauman, il quale si è espresso sul tema “Società e paure: (pre)visioni per il futuro”.
Il teorico della liquidità moderna ha individuato nel mondo contemporaneo una progressiva perdita di certezze, soffocato da precarietà e insicurezza. L’avvento della globalizzazione, inoltre, ha causato una rapida trasformazione dell’individuo da produttore a consumatore, costringendolo all’omologazione nei comportamenti e alla mercificazione dei sentimenti.
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Secondo Bauman, la paura è un sentimento innato che accompagna il genere umano fin dalla nascita. Anche gli animali provano paura, grazie alla quale individuano prontamente un eventuale pericolo da cui difendersi. Eppure, ciò che distingue l’uomo dall’animale è la consapevolezza della mortalità. Ogni generazione è caratterizzata da paure diverse e, dall’alto dei suoi 92 anni d’esperienza, il sociologo polacco prova a fare degli esempi. Egli afferma che, ai tempi della sua generazione, la paura più diffusa era la stessa descritta da George Orwell nel suo “1984”: il totalitarismo e la schiavitù pendevano sulle teste come ghigliottine. Lo slogan “The Big Brother always watches you” costringeva l’individuo a vivere nel costante timore di essere spiato, di non essere solo.
Come racconta Bauman, il libro di Orwell destò non poco scalpore, ma fu come un fulmine a ciel sereno: per alcuni giorni occupò le prime pagine di molti giornali, ma la novità durò poco. “Mi sono ricordato della mia gioventù e di un programma che parlasse di come il mondo stesse andando nella direzione sbagliata. Mi sono reso conto che la generazione del 1984, quella vera, non si è riconosciuta nelle paure descritte da Orwell, perché avevano paura di qualcos’altro”.
La riflessione si sposta quindi al presente:”Pensiamo alla scoperta recente del fatto che si sta creando una banca dati a livello mondiale che registra ogni movimento. Ogni volta che si usa il cellulare, il portatile, lo smartphone, quell’azione viene registrata per sempre; c’è qualcuno che sa esattamente dove vi trovate e cosa state facendo”. La descrizione di Bauman va dunque a tracciare uno spaventoso parallelismo con l’opera di Orwell: l’individuo contemporaneo non è più spaventato da ciò che terrorizzava il protagonista di Orwell. La malattia odierna viene definita come “servitù volontaria”, ossia il desiderio di essere visti, di essere notati.
Il filosofo, poi, si concede una rivisitazione della massima cartesiana “cogito, ergo sum”:”Se Cartesio esistesse ancora, non direbbe più ‘penso, dunque esisto’, bensì ‘mi vedono sullo schermo e, pertanto, sono’”.  L’uomo non teme di essere visto troppo, ma al contrario, ha paura di non essere notato. Tutto ciò prende il nome di “solitudine”, mentre chiamiamo “esclusione” il virus che mina il senso della vita. Tornando alle allusioni circa la liquidità dei sentimenti, Bauman denuncia un contatto umano ormai costantemente mediato, superficiale, garantito da una tecnologia avanzata che dà l’illusione della scomparsa della paura.
Sul web siamo noi a scegliere le reti di appartenenza, i legami da instaurare e i contatti da eliminare, contribuendo così alla costruzione del nostro capitale sociale di tipo bridging: nel senso letterale del termine, ci illudiamo di avere arbitrio sui ponti da ergere e da abbattere, il che, a lungo termine, mitiga la paura di rimanere da soli.
Tutti noi viviamo simultaneamente in due mondi: online e offline. Il comfort datoci dall’universo online è inconcepibile nel mondo offline. Basta una passeggiata a svelare quanto il mondo reale sia lontano da quello artificiale creato da facebook. Il mondo offline è popolato da estranei che incontrate nella quotidianità. Il problema è confondere la vita su facebook con la vita vera e credere che il mondo online serva a risolvere la vostra paura di essere esclusi o abbandonati”.
Molto spesso si legge che le nuove generazioni hanno una “crisi di strumenti d’azione”, con conseguente perdita di fiducia nel potere politico, incapace di mantenere le proprie promesse: pensiamo, pertanto, di non essere più in grado di migliorare la qualità della nostra vita. Bauman accusa un lento declino di fiducia nel futuro, il quale non viene più letto come sinonimo di progresso: “Quando si parla di progresso non si pensa ad una vita migliore, bensì a più rischi e più pericoli”.
Immancabile nella lectio magistralis di Bauman è il tema dell’immigrazione:”La migrazione è una costante della storia umana e ogni epoca ne ha avuto una; l’unica differenza erano i mezzi di trasporto e le direzioni geografiche. Ma nel 2015 si ha avuto qualcosa di diverso: l’arrivo di un milione di rifugiati dalla Siria non è stato diverso dall’arrivo di persone che cercavano lavoro verificatosi nell’era moderna. Che avevano di diverso le persone che chiedevano asilo?”. A detta del sociologo non c’è alcuna differenza, dal momento che anche i richiedenti asilo, prima di emigrare, si sentivano completamente sicuri e oggi non hanno casa, lavoro, prospettive per il futuro. Il punto focale, dunque, è che la nostra sicurezza è un’illusioneperché magari domani potremmo essere noi i protagonisti delle tristi storie che sbarcano sui lidi nostrani.
Nel concludere, Bauman riprende un saggio detto cinese per sintetizzare il proprio intervento:”Se pensi all’anno prossimo, semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni, pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni, istruisci le persone”. Indubbiamente più efficace di inutili convenevoli.
di Antonella Gioia