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LE CASE FARMACEUTICHE E LO STOP DEI "MIX LETALI" PER LE ESECUZIONI

Una morte lunga, un’agonia disumana.  E’ questa la fine che fanno coloro i quali incorrono in sentenze quali la pena di morte, che tra le varie pene che si possono comminare a chi si macchia di un reato, risulta essere senza ombra di dubbio la più grave. Attualmente tale pena è stata abolita quasi ovunque in occidente e, stando agli ultimi dati, risultano formalmente 74 le nazioni nel mondo in cui la condanna è ancora legale. Tra questi, vi sono ben trentadue dei cinquanta Stati degli USA, considerati dall’opinione pubblica da sempre tra i più avanzati al mondo. 

Proprio in Arizona e più precisamente a Tucson, si è consumata l’ultima sentenza, ai danni dell’ennesimo detenuto nel braccio della morte. Uno dei tanti, verrebbe da dire. Ma questa volta a destare scalpore è la crudeltà con la quale il tutto si è drasticamente consumato. Quindici iniezioni di farmaci letali e due ore di atroci sofferenze per morire: alla fine Joseph Rudolph Wood è morto alle 15.49 locali, nel carcere di Florence, in Arizona. L’iniezione letale gli era stata effettuata due ore prima alle 13.49 quando in genere un’esecuzione di questo tipo dura circa 10 minuti. L’uomo, 55 anni, era nel braccio della morte da più di 20 anni, condannato alla pena di morte per un duplice omicidio commesso nel 1989.

Immediata la denuncia dei legali del condannato e delle associazioni contro la pena di morte, che ora vogliono vederci chiaro. Nessuno dei protocolli legali è stato seguito. Dopo il fallimento della prima iniezione,  la mano del boia avrebbe dovuto essere fermata, la pena capitale rinviata, cosa che però non è successa. Invece di fermare la macchina della morte, è stato deciso di aumentare sempre di più la dose di veleno; sono così state somministrate altre 14 dosi.

Verrebbe da chiedersi,che differenza c’è tra uccidere una persona in modo che non soffra più di qualche secondo e lasciarlo morire dopo due ore di agonia? la differenza appare subito chiara e comprensibile.

Tuttavia la vicenda è solo l’ultima di una lunga serie legata alla somministrazione di nuovi cocktail letali nei penitenziari americani, per far fronte all’esaurimento delle scorte di pentobarbital, un barbiturico ad azione rapida che le aziende europee non forniscono più, non solo per motivi etici (come alcune di esse dichiarano), ma anche per motivi legali (norme europee vietano di vendere “strumenti di tortura”) e commerciali (la pubblicità negativa che ne deriva). Proprio così, perché se le cause farmaceutiche dichiarano di non voler più finanziare questi “omicidi legalizzati” per motivi prettamente etici, salta immediatamente all’occhio quanto per i penitenziari americani il “boicottaggio europeo” ha reso più complicato trovare nuove sostanze,  rendendo più dolorose e più lunghe le esecuzioni dei condannati a morte.
Proprio pochi mesi prima, infatti, l’uso di farmaci letali era stato adottato in Oklahoma durante un’esecuzione, scatenando non poche polemiche.

I condannati avevano cercato di rimandare le esecuzioni sostenendo che mantenere il segreto sulle sostanze letali da iniettare violasse la Costituzione. I loro appelli a vari tribunali per conoscere il mix letale che sarebbe stato loro iniettato hanno spaccato l’opinione pubblica e riacceso il dibattito sulla segretezza delle iniezioni letali, con le case farmaceutiche che, per timori politici, hanno pertanto rifiutato di fornire informazioni sulle droghe e gli stati americani, cercavano di trovare alternative, provando nuovi mix letali mai testati. Bisognerebbe chiedersi, a quale prezzo?

Forse, uno dei reali motivi per il quale molte case farmaceutiche non forniscono più il veleno per l’esecuzione è da ricercare (oltre al danno d’immagine), anche nel fatto che, probabilmente, la produzione di tali sostanze è poco remunerativa visto che se ne fa un uso limitato a pochi soggetti, mentre alle case farmaceutiche, premerebbe di più ingigantire patologie che portano a un uso massivo di farmaci.  Indignazione e scalpore oramai non bastano più e il profitto sul “capitale umano” sembra essere all’ordine del giorno e in molti stati, come il Tennessee, già ci si starebbe organizzando per ritornare alla vecchia sedia elettrica.

I boia  hanno ripreso a lavorare, ma nell’ombra. Nessun paese sembra più orgoglioso di applicare la pena di morte e anche se l’abrogazione è un passo difficile, soprattutto quando l’opinione pubblica è immatura o nutrita per anni da logiche del taglione, in linea di massima il numero dei paesi mantenitori è in caloE proprio mentre la pena di morte viene dichiarata incostituzionale in California, anche in Occidente e da molte altre parti del mondo, si sollevano importanti moniti. Proprio Ban Ki-Moon, non molto tempo fa, aveva dichiarato :

«Assieme possiamo porre fine a questa pratica disumana e crudele in tutto il mondo»

Una richiesta senza riserva a tutti i paesi delle Nazioni Unite di «fare passi concreti per abolire o non applicare più questa forma di punizione». 

Nonostante ciò, tutto riecheggia inutilmente, ancora una volta, nell’eco di sole belle parole, formalità,  di stati che affermano e si dichiarano “civili” e “democratici” solo in apparenza. Un’apparenza costernata da urla che i governi non vogliono sentire. Provengono dal buio delle prigioni e dalle stanze dei penitenziari. Sono le urla di chi viene rinchiuso, dimenticato, soffocato, privato del sonno, del diritto più prezioso: quello della vita. Sono le urla di chi viene annientato fisicamente e moralmente. Perché di questo stiamo parlando.

 
Giuseppe Papalia
 
 

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Riguardo l'autore

giuseppepapalia

Classe 1993. Giornalista pubblicista, consulente di comunicazione per i deputati al Parlamento europeo, corrispondente da Bruxelles. Una laurea in scienze della comunicazione e una magistrale in giornalismo con indirizzo “relazioni pubbliche” all'Università degli studi di Verona. Ha collaborato con alcuni giornali locali, riviste di settore e per alcune emittenti televisive dalle istituzioni europee a Bruxelles e Strasburgo. Con TotalEU Production dal 2019, ho collaborato in qualità di social media manager e consulente di comunicazione politica.

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