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Società

Il piano del Giappone per salvare famiglie e aziende

Se non puoi manipolarle, escludile. O forse non era proprio così il proverbio. Decisamente più ufficiale la giustificazione con cui la Tokyo Medical University ha ammesso di aver truccato i risultati dei test di ammissione per escludere le aspiranti donne:Un male necessario affinché le donne non trascurino la famiglia”.
Dal 2011, la TMU manometteva i risultati dei test abbassando i punteggi anche di 10 punti, in modo che la percentuale delle ragazze ammesse non superasse il 30%.
In Giappone le donne costituiscono meno di un quarto dei medici, la percentuale più bassa tra i 34 paesi OCSE studiati. Le donne medico abbandonerebbero la professione troppo presto per dedicarsi alla cura dei figli, accentuando così la carenza di medici nel Paese.
E’ bastato questo ai signori della TMU per trovare una soluzione per il bene del Paese. Un tempo alle donne era preclusa l’istruzione e l’educazione riguardava solo imparare ad essere brave mogli e buone madri. Oggi la retorica indignazione mondiale proibisce di continuare con questa politica, ma dietro le quinte è sempre un’altra storia.
Non a caso, nel Paese del Sol Levante le donne risultano decisamente sottorappresentate in ambito politico, tanto da indurre ad emanare una legge per invitare i partiti politici a “creare la condizione di massima parità tra i generi”.
Messhi boukou” è l’espressione usata per definire il destino dei cittadini nipponici: sacrificare la propria vita privata per servire il Paese e quale utilità migliore delle donne se non quella di generare cittadini che accrescano la popolazione? Così i poteri forti e maschili attuano subdoli tentativi medievali per incoraggiare le donne a fare figli e occuparsi della famiglia.
Un esempio è la pratica dei “turni delle nascite”, un vero e proprio calendario utilizzato dal datore di lavoro per organizzare le maternità all’interno dell’azienda. Chi ha già avuto un figlio deve aspettare prima di concepirne un altro, così da lasciare la precedenza ad altre colleghe.
Il quadro che ne deriva è quello di un Paese anziano e spaventato dalle relazioni umane: il National Institute of population and social security research del Giappone prevede che nel 2065 la popolazione del Paese sarà calata dagli attuali 127 milioni a quota 87 milioni.
Nel Paese del Sol Levante la teoria non incontra la pratica e il mondo giuridico non si intende col mondo aziendale: benché sia un diritto tutelato per legge, la maternità rappresenta una minaccia per i datori di lavoro.
Le donne nipponiche hanno diritto a sei settimane prima e quattro settimane dopo il parto, al 60% della retribuzione. È poi possibile richiedere un ulteriore anno di congedo non retribuito, da dividere tra i due genitori.
Durante i congedi, le aziende non pagano il salario, che viene però assicurato dall’assicurazione sociale durante il congedo di maternità e dall’assicurazione del lavoro durante il congedo per l’infanzia.
La percentuale di donne che torna al lavoro entro un anno dal parto (31,8%) è piuttosto preoccupante, così come quella dei padri che richiede il congedo (2%). Dati negativi anche dal Global Gender Gap Report del 2017, che mostra il Giappone al 114esimo posto su 144 Paesi, con un punteggio di 0,657.
Ricapitolando, una donna madre non va bene al capo, ma va bene al politico. La soluzione, quindi, è quella di escludere le donne da ambiti lavorativi che impediscano di accudire la famiglia, ma il tutto a loro insaputa, così da non innescare rivolte: roba che, nel Medioevo, manco a sognarsela.
Tutto il mondo è paese e neanche il modernissimo Giappone si dimostra particolarmente all’avanguardia in fatto di diritti e uguaglianza.
di Antonella Gioia