Home » La grande storia della pasta napoletana
Cultura

La grande storia della pasta napoletana

Dire pasta è come dire tutto e niente: tale e tanta è la varietà di prodotti e di preparazione, che è come cercare di contare i granelli di sabbia di un lembo di spiaggia. Specie in questo periodo di festività, vedere una tavolata che si apre sulle note calde e sugose di un piatto di pasta ben condito, è un’immagine che rinfranca occhi e spirito.
D’altronde, se l’Italia e i suoi abitanti sono definiti mangiamaccheroni un motivo di fondo c’è: l’estrema diffusione della pasta come alimento di base che non può mancare sulla tavola di nessuno, tanto da essere inserita nei beni di prima necessità distribuiti alle persone bisognose.
Ogni regione d’Italia ha dato il suo contributo alla storia della pasta: la Lombardia e il Piemonte con il riso, le tagliatelle dell’Emilia-Romagna, i tagliolini delle Marche, le orecchiette della Puglia e i maccheroni della Campania.
La cucina campana ha elaborato nel corso dei secoli una grande varietà di tipi di pasta, dalla più grande alla più piccola, accompagnata da svariati condimenti, con al centro l’iconico piatto di spaghetti al pomodoro e la foglia di basilico al centro.


Se è ragionevole dire che le dominazioni che il Sud d’Italia ha subito nel corso dei secoli hanno lasciato sì un grande retaggio culturale, ma anche problematiche che in forme diverse si mostrano ancora oggi, la cucina napoletana ha sfruttato l’una e l’altra situazione.
Il popolino napoletano, formato da lazzari o scugnizzi che dir si voglia, era molto più “parco” nei consumi a tavola rispetto ai nobili: da una parte abbondanza, dall’altra povertà; da una parte sprecoed esagerazione nell’apparenza, dall’altra momento di raccoglimento attorno ad un focolare.
Si potrebbe dire che i nobili operavano un consumo vistoso nei propri pasti, dal piatto vero e proprio all’uso d’argenteria o vasellame scomodo da maneggiare ma decisamente bello a vedersi. Il popolino non aveva né l’uno né l’altro: si mangiava con le mani o nella prima scodella pulita, spesso zuppe di verdure o piccolo uccellame.
La pasta entra in gioco quando da prodotto d’accompagnamento e quasi dolciario diventa alimento “normale“. Gli elementi centrali rimasero gli stessi, grano e acqua, ma dallo zucchero si passò al sale e nuovi metodi di essiccatura permisero una migliore conservazione della pasta: ciò consentì alla pasta di affrontare viaggi via mare o all’interno del continente, per i quali si specializzarono specialmente i commercianti genovesi.
Il XIII secolo vide i primi “pastifici” installati a Napoli. L’espansione del perimetro urbano, avvenuto fra Cinquecento e Seicento, rese Napoli una delle città più importanti del Sud italiano, originando un forte dualismo con Palermo. Ciò permise un migliore approvvigionamento della città, centro di raccolta e di consumo di tutti i prodotti del contado.
Ritorna sempre la sperequazione fra nobili e popolani, ma un maggior afflusso di grano, unito alla diffusione della patata americana, rese i napoletani non più mangiafoglie, ma appunto mangiamaccheroni.
Se in Europa si useranno le mani per mangiare anche la pasta fino al XVII-XVIII secolo, in Italia vi fu una precoce introduzione della forchetta, che dal Regno di Napoli giunse a Venezia; poi fu la volta della corte dei De’ Medici. La sovrana Caterina contribuirà a diffonderla dall’Italia rinascimentale al regno di Francia, per poi toccare il resto d’Europa e del mondo.

Nel Seicento nascono tipi famosi di pasta come i vermicelli, gli ziti, i pàccari e i perciatelli. Pasta lunga o corta, l’importante era riempirsi la pancia: l’albero della cuccagna, anche se usato dai governanti spagnoli come calmante per il popolino affamato e spesso riottoso, è diventato per questo simbolo di speranza e obiettivo per affrontare un’altra grama giornata.
La produzione di pasta era strettamente casalinga e “locale“, non esistendo i moderni sistemi di trasporto e conservazione degli alimenti. Il mangiar bene, anche al Sud d’Italia, era un must per i nobili che nel corso del Settecento cominciavano a viaggiare per l’Europa.
Se Goethe magnificava i profumi e i colori della costa campana, ci sarà un motivo, no? Magari Totò, in quella scena di Miseria e nobiltà, ballando sulla tavola con gli spaghetti infilati in tutte le tasche possibili, dava il più sonoro (e divertente) schiaffo alla fame: a colpi di pasta.
Pasquale Narciso