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Il Post It: Democorruzia italiana

Facciamo due conti: nel Belpaese esistono, oddio…esistono è una parola grossa ed inappropriata, ben 647 opere pubbliche mai completate; opere inutilizzate avviate da anni allo stato di rudere costate oltre 4 miliardi di euro. Se dovessimo quantificare il conto con il vecchio conio, la calcolatrice, totalizzerebbe con un error. Oppure orror, questione di punti di vista. A queste vanno aggiunte le cosiddette grandi opere incompiute, ben 372, per calcolarne il costo di quest’ultime avrei bisogno del genio di Pitagora però dotato di un computer di ultima generazione.

In questo quadro babelico potevano mancare gli ecomostri? Certo che no! Eccoli qua, vero simbolo dell’abuso edilizio e della corruzione, distesi impietosamente da Pizzo Sella siciliano all’Adige, passando per la circumvesuviana, il Tevere, il Po, l’Arno, l’Adda e compagnia cantante. Più del Risorgimento è stata la corruzione ed il malaffare ad unire l’Italia e gli italiani. In cauda venenum, ovvero il veleno sta nella coda, lo troviamo nei migliaia di capannoni industriali sparsi lungo l’intero perimetro della Penisola e costruiti grazie alle varie leggi sull’imprenditoria, leggi buone per essere aggirate con capannoni desolatamente vuoti ma capaci di avere arricchito i furboni dei quartieroni, parafrasando un termine uscito agli onori della cronaca qualche anno fa, furboni aperti per un giorno e fuggiti col malloppo la sera stessa.

Come nel caso della Liquichichimica di Saline Joniche di Reggio Calabria, costata allo Stato 1300 miliardi della cara lira, aperta e chiusa dopo solo 48 ore. Ma non è l’unico esempio, magari se lo fosse! E noi paghiamo. Noi cittadini, intendo. Montagne di quattrini che lo Stato ha regalato ai farabutti per poi riprenderli agli onesti cittadini tra tasse, accise, balzelli e tutto quanto fa spettacolo. E grana. Un Robin Hood al contrario, ruba ai poveri per donare ai ricchi manigoldi. Un malcostume infinito verso il quale nessuno osa mettere naso e tantomeno le mani.

E la chiamano democrazia. Democrazia nel rubare, infatti è un malcostume diffuso per spartire, da bravi democratici, il bottino secondo l’antico detto latino “do ut des”. Un vero Stato degno di questo nome non la farebbe passare liscia, non permetterebbe di fare cadere in prescrizione alcunché, uno Stato vero andrebbe a cercare tutti questi fenomeni ed i loro eredi sbattendoli in galera non prima di avere sequestrato i loro capitali. Eh, già, ma non sarebbe più democrazia. Pardon, democorruzia.

Mi compiaccio e mi congratulo con voi non quanto per avere terminato i lavori di ricostruzione nei tempi previsti, cosa per altro era vostro dovere, ma per avere risparmiato sulla cifra stanziata dallo Stato pur avendo effettuato i lavori a regola d’arte. Con il risparmio ottenuto beneficerà il Popolo italiano con altre opere e con aiuti alle famiglie più bisognose. Grazie a nome mio personale e di tutto il Popolo d’Italia”.

Contemporaneamente a questa lettera inviata al Ministro degli Interni Araldo di Crollalanza, l’allora Capo del Governo, ne firmò un’altra in bianco, in pratica dando carta bianca, per consegnarla al Prefetto Mori destinato, quest’ultimo, nel profondo Sud per sconfiggere la cancrena chiamata mafia.

Araldo di Crollalanza

Era il tempo che la democurruzia non esisteva.

Marco Vannucci