Il crollo dell’ormai tanto ostentato “quarto potere”, così era chiamato il settore del giornalismo, ci porta a porre qualche riflessione, giusto per giungere a un punto che non sia solo la fine, ma che rappresenti un nuovo inizio: l’alba di un nuovo mondo sul quale scommettere, di una categoria da preservare, quella più vera e autentica. Un rilancio sul quale puntare il tutto per tutto, in cui investire tempo e dedizione, perseveranza e sentimento: rilanciare un giornalismo d’inchiesta.
Si sa, la geopolitica, l’informazione, l’interesse per l’attualità e gli scenari sempre più internazionali, in questo mondo ormai globalizzato e in costante mutamento, ci portano alla ricerca convulsa e sfrenata di notizie sempre nuove, in un settore ormai inflazionato.
Ma un modo per risollevare questo settore ci sarebbe: riscoprire quella passione che in molti nutrono, quel sentimento che solo nei giovani possiamo ritrovare, quei giornalisti (o così ci piace definirli), che mettono in gioco tutto se stessi fine al limite estremo, pur di assolvere a quegli obblighi morali e deontologici della divulgazione della notizia. In quella paura che spesso si prova nell’andare contro un sistema, per quel senso di libertà che spesso è intrinseca nell’animo umano e che tutti sembriamo da sempre ricercare. La paura, quella che si descrive e quella che si prova nel descriverla. Come quei reporter accomunati da una lunga esperienza come inviati di guerra negli scenari più diversi o spaventosi. Tutti loro, in un modo e nell’altro, hanno saputo descrivere la paura di popoli interi riflessa nei loro occhi, le atrocità scaturite nei conflitti disseminati nel mondo. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno saputo portare una testimonianza oggettiva di ciò che accadeva. Questo andrebbe difeso.
E oggi più che mai si necessita di gente che sappia raccontare le atrocità di cui spesso non siamo a conoscenza: quelle atrocità della guerra che spesso modificano le profondità dell’animo, deturpandolo dal fattore umano.
Questo a parere di molti, sembra rappresentare la frontiera ultima dell’informazione “libera”, motivata dalla pura volontà di conoscenza, in un mondo in costante conflitto non solo sul campo, ma anche dietro le scrivanie di giornalisti scevri da obblighi di redazione e condizionamenti di sorta. Forse, ci siamo dimenticati che più che un lavoro, quella del reporter dovrebbe essere una passione, che porta a confrontarsi con realtà lontane, sempre diverse, all’interno della quale bisogna sapersi districare per giungere alla tanto agognata verità.
Ne siamo consapevoli, oggi come un tempo, nel susseguirsi dei recenti conflitti in Ucraina, Iraq, Palestina, nel Kosovo, in Afghanistan e nell’ex Jugoslavia. Situazioni critiche e dai risvolti politici, economici e sociali interconnessi e forse di difficili interpretazioni, ma mai del tutto estranee ai nostri mondi, alle nostre realtà. Realtà all’apparenza sicure, confortanti, ma che ci accomunano tutti. Ecco che qui nasce l’esigenza del saper ascoltare, interpretare, raccontare.
Ma come si può raccontare se i lettori, o la maggior parte di essi, sono sempre meno propensi a dedicare il proprio tempo a leggere un’inchiesta? Perché seppur globale, questo mondo è divenuto al tempo stesso frenetico e caotico, dai tempi sempre più ristretti, marginali. Dedicare tempo a certe notizie, richiederebbe attenzione, ed è più facile digerire del gossip piuttosto che concentrarsi su certe cose. Anche se questo denota e comporta una certa ignoranza in termini di attualità. Ci stiamo forse avviando verso questa direzione?
Eppure di giovani interessati ce ne sono. Riempiono aule universitarie, si mettono in mostra e in loro sembra riconoscersi quella voglia ineguagliabile di elevarsi, di evadere per conoscere.
Come di coloro che sembrano avviarsi alla professione di giornalista, sono tanti come lo erano un tempo, ma lo desiderano sempre meno per seguire le orme di Hemingway e sempre più per ricorrere a una scorciatoia, per entrare a far parte dell’élite dei famosi, di quelli che contano, che i soldi ce li hanno davvero. E questo è un peccato.
Un giornalista non può, non deve entrare a far parte di coloro di cui deve raccontare. Se lo facesse, non potrebbe più svolgere il proprio lavoro, che è questo: ascoltare chi ha qualcosa da dire, trasformarlo in un linguaggio semplice da capire e scriverlo, affinché altri, tanti altri, ne vengano a conoscenza. Un mestiere affascinante ma umile.
Umiltà che sembra esser sempre meno in questo senso di decadenza collettiva. Decadenza che si può risollevare solo con i giusti ideali. Quegli ideali che forse, oggi più che mai sembrano mancare in quel senso di smarrimento collettivo.
Ciò che sembra urgente è solo ricordarci che quello del giornalista è un mestiere nobile, che ha il potere di plasmare l’opinione pubblica, e il dovere di farlo ponendosi in contrasto con i poteri forti, accompagnando la crescita culturale e democratica di un Paese. Joseph Pulitzer, all’inizio del secolo scorso, aveva ben chiaro quali nozioni fosse necessario che un giornalista introiettasse per svolgere al meglio il suo lavoro. A lui si deve, infatti, la teorizzazione di una scuola di giornalismo (che sarebbe poi divenuta la più nota al mondo, la Columbia University), nella quale andavano insegnate, a suo parere, nozioni differenti: dalla legge alla storia, passando per la sociologia, l’economia, la statistica e le lingue, il tutto condito di un po’ di etica. Perché
“ al di là della conoscenza, al di là delle notizie, al di là dell’intelligenza, il cuore e l’anima di un giornalista albergano nel suo senso morale, nel suo coraggio, nella sua integrità, nella sua umanità, nella sua solidarietà verso gli oppressi, nella sua indipendenza, nella sua dedizione al bene comune, nella sua sollecitudine nei confronti del pubblico servizio. […] un giornalista privo di moralità è privo di tutto.”
Forse questa lezione la conoscono tutti i giornalisti che si sono susseguiti nella storia di questa professione, da William Russell, primo inviato di guerra in Crimea, ai reporter di oggi. O forse no: Michele Serra qualche anno fa si scagliava contro i giornalisti “da scrivania” che scrivevano delle guerre leggendo le notizie Ansa, e invitava i professionisti a rimboccarsi le maniche. In ogni caso, l’etica e la morale dell’individuo devono essere poste alla base del suo lavoro professionale.
Altrettanto recentemente è divenuto famoso un articolo scritto da una giovane reporter, Francesca Borri, che sollevava alcune questioni cruciali per chi oggi voglia compiere il mestiere di giornalista. Il ruolo del free lance è sempre più importante ma sempre più sfruttato dalle testate nazionali, e le tutele garantite ai giovani reporter sono sempre più ridotte.
I giovani che oggi aspirano alla professionalità nel campo hanno davanti, in Italia, un duro lavoro burocratico fatto di tesserini, albi e scuole dai costi proibitivi, ma forse quello che davvero occorre non alberga in queste trafile noiose e poco formative. Probabilmente l’unica preparazione che vale è quella sul campo, è quel “metterci la faccia” che fa la differenza e costringe un giornalista a chiedersi quale ruolo voglia assumere nella società. Come disse Ulysses S. Grant, diciottesimo Presidente degli Stati Uniti, “un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché a essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare e gli errori del governo, e una stampa giusta è lo strumento efficace di un simile appello”.
Bisognerebbe ricordarsi, che una vera società ha bisogno di un ideale da desiderare; una società senza utopia non è più una vera società.
Giuseppe Papalia.
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