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Attualità

I ragazzi delle trincee

La Grande Guerra è il feticcio che la destra e la sinistra ogni anno, a novembre, evocano per portare avanti la propria battaglia politica. Eppure in quel conflitto, tremendo per il numero delle vittime, furono in molti a donare la propria vita per un’ideale ancora oggi evanescente: l’Unità d’Italia

L’Italia è una nazione strana, punteggiata da campanili, borghi e tanti popoli diversi, che oggi sono riuniti tutti sotto un’unica bandiera e un solo stato; la Storia ha voluto che si arrivasse all’unità dopo molti secoli di Repubbliche, Ducati e Principati, ma ancora adesso – dopo più di centocinquant’anni dalla nascita del Regno d’Italia – c’è ancora chi del regionalismo fa la sua bandiera. O, tutt’al più, il punto di forza di questo Paese, maledetto e benedetto al tempo stesso.
Perché, venti di secessione e di indipendentismo a parte, l’Italia è un concentrato eterogeneo di popoli, ma tutti egualmente italiani. E forti di questa consapevolezza, in molti tra il ’15 e il ’18 del secolo scorso decisero di arruolarsi tra le file delle Forze Armate di uno stato appena nato, giovane e modesto, perché convinti della propria italianità, e per difendere – o ridefinire – i confini di quella che era, che è, la loro Patria.
Giudicare questi giovani per la loro scelta con il sistema di valori di oggi è abbastanza anacronistico; in fondo, erano affascinati dall’idea di combattere per un Paese che fosse il loro, e non di qualche potentato o signorotto. Alcuni di loro durante il conflitto, molti anzi, persero la vita. Ma fino all’ultimo, nei loro pensieri e nelle loro azioni, rimase indelebile e indefesso l’ideale di unità e fraternità che solo l’Italia poteva dare ai suoi figli.
Studenti universitari, operai, ma anche intellettuali e politici diedero la propria vita sui campi di battaglia; di molti di loro si sono perse le tracce, e i nomi. Mentre altri, invece, hanno lasciato a chi è venuto dopo dei precisi racconti di quello che è stato visto tra una trincea e l’altra. Emilio Lussu, sardo, prestò servizio sull’Altopiano di Asiago; di quel periodo scrisse un libro, ancora oggi un classico della letteratura contemporanea, Un anno sull’altipiano.
Morte, ordini perentori e anacronistici si affastellano, si susseguono portando all’annullamento innaturale di ciascun uomo sul campo di battaglia. La guerra è una brutta bestia, è una sirena che seduce con la sua voce sensuale e suadente per poi, una volta ingannata la povera vittima, farla a pezzi e sbranarla fin nel profondo. Questo lascia scritto Lussu. Null’altro.
E poi ci sono altri volti, che non si arresero alle atrocità del conflitto, ma anzi proprio in seno ad esso trovarono la forza per esaltare non tanto se stessi, quanto un ideale: quello della Patria, e della sua libertà. Cesare Battisti si battè per il Trentino italiano; venne condannato a morte per alto tradimento nei confronti dell’Impero Austro-Ungarico – sotto cui era nato ed aveva prestato servizio come deputato della Dieta imperiale -, e venne giustiziato a Trento, dove fu rinchiuso, nel 1916.
Pochi mesi prima di lui, la stessa sorte la subì il giovane Damiano Chiesa, sempre trentino, di Rovereto. Anche Fabio Filzi fu uno degli irredentisti che sempre nel ’16 venne giustiziato perché fedele alla causa italiana. Tutti combatterono sul fronte; vennero catturati. E infine uccisi, con l’unica colpa di voler issare di nuovo a Trento e a Rovereto il tricolore.
La mosca bianca in questo contesto fu Bruno Franceschini, anch’egli trentino ma fedelissimo di Vienna, tant’è che contribuì alla cattura di Battisti e di Filzi nel luglio del 1916. Non ritornò più in Italia al termine del coflitto e concluse i suoi giorni in terra austriaca; venne sempre visto come un traditore dagli italiani. E ci mancherebbe altro: li riconobbe lui per primo, e li condusse al tribunale militare di Trento dove, in un processo lampo, bastarono poche ore per la sentenza e l’esecuzione.
Questi uomini contro, tutti loro, morirono anche malamente e sacrificandosi per un’idea che oggi sotto molti aspetti andrebbe ripresa da più parti, specie dalle forze politiche: l’Italia univta, redenta e sovrana. Un concetto, questo, spesso dimenticato, come pure quelle centinaia di migliaia di giovani morti al fronte, perché costretti – certo, ci furono anche questi casi in cui si rischiava la fucilazione se non si andava a combattere -, o perché sospinti da un ideale.
Oggi in Italia manca quel senso civico e di dovere presente in quegli anni.

Alessandro Soldà