Un anno fa era appena finito Sanremo, ci chiedevamo ironicamente dove fosse Bugo facendo riferimento alle parole di Morgan sul palco dell’Ariston, e le notizie sul Coronavirus erano un rumore di sottofondo che non ci dava troppo fastidio. Un virus esotico, lontano: non era affar nostro. Eppure, solo un mese dopo è lockdown per l’Italia e già a metà marzo il numero di decessi nel nostro paese supera quello della Cina. È già passato un anno, come vivevamo prima quasi non lo ricordiamo più, perché il Covid ha stravolto le nostre abitudini, i nostri ritmi e per certi versi anche il nostro modo di pensare.
Una delle direttive da seguire per evitare il contagio è il distanziamento sociale, e ciò ha inevitabilmente influenzato il nostro modo di vivere le relazioni interpersonali. Inizialmente l’isolamento è stato forzato dal momento che non ci si poteva più recare sul posto di lavoro, a scuola, all’università o persino a far visita ad un parente. Adesso questa imposizione è come se fosse stata interiorizzata e si sia trasformata in diffidenza. Ci guardiamo tutti un po’ come possibili appestati o indagati per un crimine efferato, fatichiamo a fidarci dell’altro e vivere a 360° qualsiasi tipo di relazione. Avrà il Covid semplicemente amplificato una paura congenita che abbiamo verso l’altro?
Altro drastico cambiamento è stato quello della mobilità limitata. Prima della pandemia eravamo liberi di spostarci ed uscire senza alcun limite o restrizione, adesso la nostra routine si svolge prevalentemente a casa con l’ausilio dei nostri device. Anche il susseguirsi di decreti e provvedimenti non ci permette più di pianificare a lungo termine, limitando non solo la libertà di spostamento, ma anche di organizzazione. Soffriamo di indecisione cronica perché è ormai difficile fare piani, viviamo così alla giornata, senza aspettarci troppo dal domani, restando un po’ inermi davanti alla dubbiosità degli eventi.
Anche i nostri ritmi sono stati rivoluzionati. La nostra frenetica ed inarrestabile routine ha avuto una drastica battuta d’arresto: le nostre tempistiche si sono dilatate e in alcuni casi siamo riusciti a ritrovare del tempo per noi stessi. Forse dopo tutto questo tempo a casa accusiamo un po’ i sintomi di pigrizia degenerativa: velocità di azione simile a quella di un bradipo, tempi di reazione di un lamantino e bisogno di lunghi riposi come i koala.
Rispetto all’inizio della pandemia abbiamo anche mutato il nostro atteggiamento nei confronti del dolore, sembra che ci sia una generale stoica accettazione della sofferenza. Siamo stati, e siamo tutt’ora, talmente tanto bombardati da immagini forti, notizie e numeri che ormai quasi non ci toccano più; sono all’ordine del giorno. Parliamo di decessi e di nuovi contagi con la stessa nonchalance con cui parliamo di cucina o oggettistica. Si può solo sperare che questo periodo non abbia spianato la strada verso il trionfo di una società indifferente ed individualista.
Non possiamo certamente prevedere come saremo quando tutto sarà finito, ma possiamo analizzare un’istantanea, che sembra ricordare Guernica di Picasso. La guerra contro il Covid è stata una lotta collettiva ma anche profondamente individuale: ognuno di noi ha affrontato diverse sfide. La donna a sinistra del quadro urla al cielo, forse è stata licenziata a causa del Covid e non sa come dare da mangiare al suo bambino. L’uomo con le braccia tese verso l’alto, all’estrema destra, soffriva di depressione e l’isolamento ha accentuato il suo malessere. O ancora, la figura distesa con la spada spezzata ha combattuto fino all’ultimo in terapia intensiva ma non ce l’ha fatta. Eppure, in alto vi è una lampadina accesa e, in basso, sulla spada spezzata è nato un fiore. Due segni di speranza, quella che indubbiamente tiene ancora in piedi le nostre stanche membra.
Antonella Resina