Il personaggio è così curioso e singolare da destare sempre un certo interesse, anche a distanza di tanti anni dalla sua precoce scomparsa, mezzo secolo fa.
Per cominciare non è neppure chiaro il suo vero nome. Si sono succeduti vari appellativi, e versioni diverse sul come e perché sia stato chiamato in un modo piuttosto che in un altro. Un nome doveva indicare la natura del suo carattere, un altro la femminilità in lui, l’altro ancora ricordare che era nato nell’anno del dragone, uno doveva essere inglese per l’anagrafe.
Nato a Hong Kong nel 1940, da padre cinese e madre cino tedesca e cattolica, che ebbero, oltre a lui, altri quattro figli, partecipava dunque di diverse culture; le quali andavano a incrociarsi in un posto come quello che, similmente a Macao o Gibilterra o Beirut, era archetipo di melting pot: un passaggio di vite che lasciano l’impronta di mondi differenti e rendono l’idea di perenne borderline, una situazione senza identità, tratti distintivi, lingua o religione ben definiti.
Poiché si parla di Asia, di estremo oriente, le arti marziali erano in primo piano. Bruce mescolò di tutto e, pare, ottimamente: dal “tai chi” al “kung fu” al pugilato classico. Poté impratichirsi in quest’ultimo soprattutto dopo che, finito in una rissa dove aveva demolito un ragazzo occidentale con le sue già allora eccezionali doti, il padre credette bene di allontanarlo dalla città e dalla scuola cattolica che frequentava; il ragazzo si trasferì da amici di famiglia d’origine cinese, prima in California, poi a Seattle.
Si procurò un diploma tecnico, arrivando anche a iscriversi all’università, ma lasciò perdere, perché ben altro bussava alla porta. Era stato notato mentre imperversava ai campionati di molte discipline, ma soprattutto si accorsero di lui dei produttori cinematografici.
Lo snello e scattante giovanotto aveva studiato specialità tutte sue come il pugno a un pollice e i piegamenti su due dita, oltre a dare sfoggio di abilità nel karate.
Egli creò uno stile personale che definì “Jeet Kune Do“. Pioniere della fitness, intesa come allenamento complessivo in cui nulla doveva essere trascurato, era maniacalmente preoccupato della forma fisica e si creò un corpo perfetto, pur se di struttura esile e non molto alto.
Si dedicava alle pratiche aerobiche (corsa, bicicletta), al corpo libero e al culturismo, quanto agli esercizi di forza mentale (un mentalismo d’avanguardia), che dalle sue parti erano tenute in gran conto da filosofie e religioni tradizionali, prima che esse invadessero l’occidente con la new age.
La sua arte di body builder era meticolosissima, non trascurava alcuna parte del corpo, attento alle interazioni con la psiche, lo spazio e il tempo. La sua preparazione includeva cognizioni di medicina, con particolare attenzione ad alcuni gruppi muscolari e perfino alla fortificazione della pelle. Studiò e si fece costruire particolari macchine da esercizio e riscosse l’ammirazione di famosi culturisti come Lou Ferrigno (L’Hulk televisivo) e Schwarzenegger.
Il concetto di definizione dei gruppi muscolari e della attuale, idolatrata “tartaruga” addominale, probabilmente nasce con lui, considerato l’uomo con meno grasso corporeo al mondo. Instancabile nel perfezionare le tecniche, la velocità, la resistenza, l’equilibrio, i piegamenti, poggiandosi quasi sul nulla (un dito, la spalla), divenne presto un fenomeno, attirando pubblico, giornalisti e finalmente anche produttori.
Quando, nel 1970, subì un infortunio alla schiena e dovette osservare un periodo di convalescenza, compensò l’inattività con una mole incredibile di letture su ogni possibile argomento che lo portasse a migliorare la sua preparazione psicofisica.
Sappiamo del suo enorme successo tra gli anni sessanta e settanta; e anche delle difficoltà che incontrò per sposare Linda, la sua bianca ragazza californiana.
Un po’ meno si è parlato delle circostanze della sua morte, nel 1973. Citiamo da “Il Post“:
“L’incertezza che i medici ebbero inizialmente nel determinare le cause della morte contribuì a creare numerose leggende. Ad esempio si disse che era stato avvelenato da una sua amante, pagata da una casa di produzione rivale, oppure che era stato ucciso dalla mafia cinese. Ma la storia che ebbe probabilmente più successo – anche perché più in linea con il personaggio – era quella secondo cui Lee era morto dopo essersi scontrato con un maestro di una scuola rivale. Secondo questo racconto piuttosto fantastico, Lee perse lo scontro perché subì una mossa segreta, un particolare tipo di pressione sui suoi organi vitali, che gli causò la morte dieci giorni dopo aver subito il colpo”.
Per quanto riguarda questa versione più “di successo”, l’accusa a Bruce era di aver rivelato segreti professionali che, per le mentalità orientali di allora, erano semireligiose oltreché lucrose.
Quanto ai supposti nemici, i produttori Raimond Chow e Run Run Shaw, e il regista Lo Wei, con i quali Lee si era messo in contrasto, erano potenti e, si dice, collusi con le Triadi; e la ragazza con cui si trovava al momento del malore, Betty Ting Pei, era famosa come pupa dei gangster.
In versione ufficiale, un semplice analgesico gli avrebbe causato il malore mortale, unito a qualche tiro di cannabis – lo disse un esperto di Scotland Yard. Comunque sia andata, qualcosa ci ha lasciato.
Il suo ricordo ritorna prepotente all’assurdo incidente che causò la morte sul set, nel 1993, del figlio Brandon. Durante una scena di sparatoria sfuggì una pallottola vera che, secondo alcuni, non era stata devitalizzata a dovere nella sostituzione con quella a semplice scoppio per esigenze sceniche.
Una sfortuna passata da padre a figlio, che a oggi ancora sgomenta. Un modo, secondo il complottismo irriducibile, di combattere l’ascesa asiatica nel gradimento mondiale.
Carmen Gueye