A due anni dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi sono in molti a chiedersi cosa, di ciò che aveva promesso, sia stato effettivamente fatto. Comprendere oggi le dinamiche e il funzionamento della sua squadra di governo, oltre che la percentuale di successo delle sue proposte di legge, è cosa necessaria: soprattutto vista l’alta frequenza con cui il Premier ha ricorso alla fiducia. Ma di che si tratta con esattezza?
I numeri di questi due anni di governo Renzi, parlano chiaro: confermano trend consolidanti che hanno sicuramente caratterizzato le ultime due legislature, ma con notevoli “chiaroscuri”. Esecutivi che ricorrono sempre più alle “larghe intese” e in cui i protagonisti sono spesso gli stessi (riprendendo uno studio di OpenPolis, si contano 63 persone di cui 35 del Pd per il 30% già facenti parte di uno dei tre governi precedenti), confermano un lato della medaglia certamente “ombroso”, alla faccia della rottamazione.
La centralità del governo nelle riforme legislative e l’allargamento delle responsabilità che ad esso competono, hanno reso di fatto il paese instabile: caratterizzato da un equilibrio politico precario. La fiducia, caratterizzata da chi dell’esecutivo ne fa parte, è diventata così necessaria per mantenere quelle promesse iniziali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce. E con un Parlamento ormai in secondo piano, sull’esecutivo del Governo tutto è finito per essere giocato sulle “tavole di verità” di chi ha promesso, ma non ha mantenuto.
Andando più nello specifico diviene perciò importante capire, facendo il punto della situazione, cosa di concreto è stato fatto fino ad oggi. Sicuramente per le proposte di legge, quelle governative (stando agli stessi dati di OpenPolis) hanno avuto, nel 28,98% dei casi, riscontro positivo, completando l’iter di riferimento grazie ovviamente allo strumento “fiduciario”, utilizzato nel 31,01% dei casi (tra queste si contano la Legge di Stabilità con 4 fiducie, il Jobs Act, l’Italicum e la riforma della Pubblica Amministrazione, rispettivamente a quota 3).
Era il 2014 e Matteo Renzi iniziava il suo mandato rinnovando la comunicazione politica e promettendo, nel suo dialogo alle Camere, discorsi motivazionali su una ristrutturazione che sarebbe partita da un programma politico in grado di far leva sull’economia, non nascondendosi dietro le sole richieste Europee e le minacce della crisi, ma premendo l’acceleratore sulla ripresa (quella che ad oggi ancora non si è vista se non in un misero 1%, secondo quanto dichiarato dall’Ocse). Altro punto focale poi era la riforma del sistema scolastico e formativo con il decreto sulla “buona scuola”, che oggi da più potere ai dirigenti scolastici, tuttavia aumenta il fenomeno delle supplenze piuttosto che migliorare quello delle assunzioni. Le prime, per la maggior parte ancora ferme se non peggiorate, dati i ritardi nelle graduatorie da cui attingere nuovi insegnanti, hanno generato una voragine di posti con effetti negativi per la continuità didattica. Inutile ricordare le proteste di insegnanti e docenti, oltre a sindacati di categoria.
La riforma sulla pubblica amministrazione, con il DDL Madia, preannunciatosi compito estremamente arduo ma obbligatorio visto il feeling con le realtà imprenditoriali nostrane, hanno confermato quanto i ritardi nella burocrazia siano effettivamente diminuiti seppure essi permangano. Semplificare e velocizzare le pratiche si sa non è cosa facile, ma i servizi online (che permetterebbero ai cittadini una più semplice prenotazione di visite mediche, iscrizioni scolastiche, pagamento di tasse) dovrebbero agevolare i cittadini, seppure essi si vedano contrastati da una scadente copertura di rete del nostro paese, con l’Italia ultima nelle classifiche sulle coperture e un analfabetismo digitale sostanziale per almeno il 34% degli italiani. Non migliora poi per quanto riguarda il pubblico impiego, ancora costernato da tagli e risoluzioni contrattuali.
Altra riforma essenziale, quella sul Jobs Act, ha destato non poche polemiche mosse da Sindacati di categoria e lavoratori. Quest’ultimo, ribattezzato il “Jobs Act alla francese” (con l’unica differenza che in Francia, in queste ultime settimane, si sta verificando un duro scontro civile sulla riforma del lavoro), ha visto il proliferarsi di flessibilità e licenziamenti facili da parte dei datori di lavoro, con un conseguente declino di garanzie e reintegro dei lavoratori, con la modifica dell’articolo 18 dello statuto del lavoratore.
In conclusione ha tenuto banco, fino a qualche giorno fa, la riforma fiscale e delle pensioni, detto anche decreto “Salva Italia”, con l’obiettivo di ristabilire i criteri sull’uscita anticipata dal lavoro dal 2016 a 62-63 anni, con 35 anni di contributi. Il tutto con un taglio dell’assegno legato non al ricalcolo contributivo, ma all’equità attuariale, cioè al tempo più lungo di percezione dell’assegno: senza non poche polemiche, mosse principalmente dal segretario nazionale della CGIL Susanna Camusso.
Concludendo, sulla carta di promesse ce ne sono state tante, ma nei fatti? Di certo l’esecutivo non è ancora terminato e di tempo, per garantire qualche altra promessa quale quella relativa all’abbassamento delle tasse, ancora ce n’è. Non resta che aspettare.
di Giuseppe Papalia
[Photocredit: italianosveglia.it]