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Il caso Williams è un clamoroso autogol per il femminismo

I fatti di sabato scorso allo US Open femminile sono ormai cosa nota: Serena Williams, una delle migliori tenniste mai esistite, accusa l’arbitro Ramos di sessismo dopo una dura, ma corretta, decisione arbitrale. Gli animi in campo iniziano a scaldarsi dopo che la Williams riceve un warning per aver tentato di comunicare con l’allenatore, gesto vietato nelle finali dello Slam. Dal video, ad onor del vero, sembra essere il coach Mouratoglou a cercare il contatto con Serena – lo ammetterà lui stesso a gara finita – e a metterla in una situazione difficile. La vera bomba scoppia poco più tardi, a secondo set inoltrato. La tennista americana scaglia a terra la racchetta rompendola, dopo un errore banale che le costa il 4-1 e quindi la concreta possibilità di rimettere in piedi la partita. Ramos, celebre per la sua inflessibilità, le commina un secondo warning ed un punto di penalità nel prossimo game. Qui probabilmente i nervi della Williams cedono, complice il recupero della Osaka – la ventenne avversaria giapponese – che dopo il pareggio si porta in vantaggio per 4-3, confermando il trend della partita che l’ha vista dominare quasi completamente. Serena inizia ad inveire contro l’arbitro, asserendo che debba scusarsi ed esplodendo poi in un “you’re a thief, too”: “sei un ladro”; non contenta, dà all’arbitro del sessista, sostenendo che ad un collega maschio tutto ciò non sarebbe successo. Ramos applica ancora una volta il regolamento: un game di penalità e Osaka che conduce 5-3, ad un passo da una storica vittoria personale e giapponese. La Williams perde, e quello che arriva dopo è, a mio giudizio, più vergognoso di quanto successo in campo.
Un vero professionista, sbollita la rabbia e la frustrazione, si sarebbe affrettato a scusarsi e a rendere i giusti meriti ad una ragazza alla sua prima fondamentale vittoria. È pur vero che la Williams è salita sul palco, durante la premiazione, per zittire i fischi diretti ad una Osaka in lacrime, come è vero che quei fischi li ha causati lei, e lo sapeva benissimo. Invece la tennista americana ha confermato, nelle interviste post partita, le accuse di sessismo verso Ramos, che a detta di quasi tutti gli addetti ai lavori ha svolto bene, seppur in modo severo, il proprio compito. Non è mancato neppure il pronto sostegno alla Williams da parte di una ex collega illustre come Billie Jean King, protagonista nel 1973 della celebre “battaglia dei sessi” contro l’ex numero uno al mondo negli anni Trenta, Bobby Riggs, e fondatrice della Women’s Tennis Association. La reazione di Serena è parsa quella di una tennista esperta che si vede battuta dall’avversaria più giovane: la reazione di chi non accetta la sconfitta e fa molto rumore perché si parli di altro. Cosi facendo l’atleta americana non solo ha di fatto cancellato la débacle dalla memoria collettiva sostituendola con l’attuale polemica, ma ha strumentalizzato una causa fondamentale piegandola ad uno scopo personale. Un fatto gravissimo, come grave è l’appoggio ricevuto da alcune parti dell’opinione pubblica.

Il caso Williams mette perfettamente in luce due aspetti del femminismo da battaglia contemporaneo: superficialità e aggressività. I casi simbolo, gli esempi chiave che dovrebbero fare da guida durante una battaglia ideologica diventano episodi minimi, beghe da condominio assurte a modello di battaglia fondamentale per la causa. E in alcuni casi, come quello appena raccontato, poggiano su basi inesistenti o del tutto false. Non avendo quindi solidi sostegni, questo femminismo fa della ricerca del nemico il collante per la tenuta del movimento: l’uomo è l’antagonista, e ogni dichiarazione resa da una donna è puro vangelo. Una semplificazione tipica dei movimenti estremisti, che devono raccontare la realtà attraverso un filtro sempre uguale, pena la perdita della coesione interna. Ecco quindi che il Fausto Brizzi di turno diventa immediatamente un mostro, salvo poi essere assolto da tutte le accuse senza, si può ben immaginare, ricevere le dovute scuse. Il femminismo contemporaneo assume i toni di una rivoluzione, un movimento oppositivo ad uno stato imperante precedente, che si attua con violenza e rancore, finendo per commettere gli stessi errori del maschilismo che combatte. Se infatti è vero che l’autentica rivoluzione è quella che fallisce, lasciando dietro di sé un’eredità ideologica e culturale, il #Metoo e compagni stanno invece vincendo la loro personale rivoluzione forcaiola, diventando però come il sistema che combattono e condannando alla sconfitta il movimento tutto. Il maschilismo è una questione di potere, di dominazione privata e pubblica, che è esattamente la strada intrapresa dalla frangia, o diremo meglio metodo, #Metoo. Se un arbitro mi penalizza io lo accuso di sessismo, giro la questione, la trasformo in cosa privata e sfrutto la combinazione fra due miei poteri personali, la popolarità e la credibilità a priori in quanto donna, per rendere nullo il suo giudizio professionale.
Paradossale quindi scoprire che il vero sessismo l’ha fatto proprio Serena Williams, giudicando l’operato di un professionista in quanto uomo. Rovinando, non dimentichiamolo, quella che poteva essere una splendida giornata per Naomi Osaka. Il maschilismo è un problema grave che va combattuto con la serietà del caso, non portando all’estrema attenzione mediatica casi superflui o inesistenti, ma esempi veri di donne e situazioni che fungano da emblemi, per noi ed i posteri. Ricordiamo inoltre a Serena Williams che il nostro connazionale Fognini, uomo, venne multato per un totale di 120,000 dollari ed espulso dal torneo allo scorso US Open dopo vari insulti alla giudice di gara. A lei, quindi, pare sia andata anche bene.