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Politica

Il Centro in Italia: un polo senza identità e senza leader che vale il 10%

L’Italia repubblicana è un Paese che politicamente ha spesso – per non dire sempre – guardato al Centro. Dopo la fine del fascismo, infatti, il partito che si è subito affermato mantenendo il potere per più di quarant’anni è stato la Democrazia Cristiana, la forza di centro per eccellenza equidistante tanto dal Partito Comunista quanto dal Movimento Sociale, corrispettivo della CDU tedesca che governò nel Secondo Dopoguerra ininterrottamente fino al 1969, per poi tornare a guidare la Germania con Helmut Kohl prima e con Angela Merkel poi.

Il “centrismo all’italiana” si è sempre contraddistinto per una certa pluralità di temi portati dai rispettivi partiti: se la DC, in quanto grande partito di Governo, rappresentava le istanze più atlantiste, anti-comuniste e nazionalpopolari, vi era poi una galassia di gruppi minoritari ma decisivi per la formazione dei Governi soprattutto negli anni ’70 e ’80: l’epoca del Pentapartito, infatti, vide governare insieme la DC, il Partito Liberale, il Partito Socialista, il Partito Socialdemocratico e il Partito Repubblicano.

Se il PLI era l’unico partito di centro-destra secondo i dogmi che oggi conosciamo, il PSI, il PSDI e il PRI rappresentavano invece tematiche di centro-sinistra, offrendo al contempo leader carismatici e credibili al “centrismo”, come Giovanni Spadolini o soprattutto Bettino Craxi. Questa alleanza però deflagrò completamente sotto i colpi di Tangentopoli: di quel che fu quel Centro che nel 1992 incassò circa il 50% dei voti (29.66 la DC, 13.62 il PSI, 2.86 il PLI e 2.71 il PSDI, senza contare il 4.39 del PRI che però lasciò il Pentapartito nel 1991) rimase ben poco.

Alle elezioni del 1994, infatti, la coalizione di Centro – guidata da Mariotto Segni – totalizzò una percentuale di consensi di poco superiore al 15%, frutto dell’11.07 incassato dall’erede della DC ovvero il Partito Popolare Italiano e del 4.68 del Patto Segni, una lista liberale ed europeista a sostegno del leader della coalizione. Una catastrofe elettorale, acuita dal carattere sostanzialmente “bipolare” del sistema italiano, ovvero il Centrodestra di Silvio Berlusconi da un lato e la Sinistra di Achille Occhetto dall’altro.

Il successivo “ventennio berlusconiano” è stato sostanzialmente caratterizzato dalla formazione di gruppi sempre più numerosi ma con sempre meno consenso che si rifacevano al Centro democristiano, diventando però spesso “aghi della bilancia” nella formazione dei Governi: basti ricordare la crisi di Governo scaturita dall’addio di Marco Follini all’UdC, o la caduta del Governo Prodi II per mano dell’UDEUR di Clemente Mastella.

Per rivedere un polo puramente “centrista” si dovette aspettare la caduta del Governo Berlusconi IV: l’avvento di Mario Monti come Premier tecnico rimescolò le carte, portando alla nascita di Scelta Civica, espressione delle idee montiane, che in vista delle elezioni del 2013 si alleò con l’UdC di Pierferdinando Casini e con Futuro e Libertà per l’Italia, movimento liberal-conservatore formato da Gianfranco Fini dopo l’addio al Popolo della Libertà. In questo caso i capisaldi ideologici della coalizione si potevano trovare in una sintesi fra liberalismo, europeismo e cristianesimo democratico. L’azione di Governo di Monti, però, convinse a sostenere questo progetto solo il 10.56% degli italiani, che si divisero in modo sostanzialmente paritario tra Centrosinistra, Centrodestra e Movimento 5 Stelle.

Nonostante gli esperimenti condotti da Angelino Alfano di ricreare un soggetto di centro come il Nuovo CentroDestra, alle elezioni del 2018 si è ripetuta la tripartizione dell’elettorato, arrivando poi alla formazione del Governo gialloverde con la sintesi delle due forze “populiste”, ovvero la Lega di Matteo Salvini e i grillini. Poi la crisi governativa dell’estate 2019 e l’insediamento del Governo Conte II hanno modificato lo scenario: Matteo Renzi ha lasciato il PD per formare la sua Italia Viva, mentre Carlo Calenda – fresco di elezione al Parlamento europeo – si è svincolato dai Dem formando Azione.

Guardando i sondaggi di oggi, si può notare che questi due partiti viaggiano su cifre molto simili, orbitando entrambi tra il 3 e il 3.5%. Percentuali che da sole non vogliono dire nulla, ma che se vengono sommate al 2% che raccoglie +Europa e all’1.6% dei Verdi portano a un “polo” che si attesterebbe intorno al 10%.

Se dunque i blocchi a oggi vedono da un lato il Centrodestra di Salvini, Meloni e Berlusconi e dall’altro l’asse PD-M5S con il sostegno delle forze di Sinistra, questo gruppo di partiti liberali fa da ago della bilancia risultando decisivo per la formazione di qualsiasi Governo. Lo shift ideologico però è importante: se il centro ha sempre avuto una forte componente cattolica, questo “Centro” non si rifà più ai valori tradizionali della Chiesa, ma guarda piuttosto all’Europa, al capitalismo, al laicismo, al liberismo, all’ecologia, rappresentando – certo con meno consenso elettorale – quello che è En Marche di Emmanuel Macron in Francia.

Certo, non si tratta dello stesso liberismo della Forza Italia di Berlusconi, che ha comunque una componente conservatrice importante nel suo elettorato prima ancora che nell’organico del partito. Tuttavia non si può non ammettere che la politica economica che guida questi partiti che – a eccezione di Italia Viva – sono fieramente all’opposizione del Governo Conte II sia totalmente opposta tanto al socialismo del PD quanto al populismo del M5S.

Fa specie, però, vedere che questa area non abbia effettivamente un leader: Matteo Renzi, che pure è il volto più noto dei quattro leader dei singoli partiti, è passato dall’avere il 40% all’avere il 3.5%; Carlo Calenda distribuisce in maniera salomonica “bastonate” tanto ai giallorossi quanto alla Lega ma al momento l’unico ruolo che lo vede coinvolto con possibilità di successo è quello del Sindaco di Roma; Emma Bonino sembra non riuscire a sfondare la soglia di sbarramento nonostante un partito molto attivo sia sui social che a livello parlamentare; infine i Verdi, pur avendo una stagione politica a loro favorevole, non riescono a proporre una leadership stabile, un volto associabile a un simbolo e a delle idee.

Se quest’area però convergesse intorno a un nome trovando anche una sintesi elettorale, le cose si farebbero più complesse: in un sistema elettorale simile al Rosatellum, probabilmente questi partiti accederebbero solo alla redistribuzione dei seggi del proporzionale, formando una componente interessante dal punto di vista contenutistico ma irrilevante numericamente parlando. Qualora invece – come sembra – si approdi verso un sistema elettorale proporzionale, il “cartello liberale” risulterebbe decisivo.

Si prospettano, dunque, due possibili strategie: o cercare di polarizzare il più possibile lo scontro, spingendo gli elettori a scegliere se stare con la Destra o con la Sinistra isolando il “Centro”, oppure riprendere a parlare di temi liberali anche nei programmi delle due Grandi Coalizioni, rubando terreno fertile a Renzi, Calenda e Bonino. Tertium non datur? Una terza possibilità c’è: lasciare tutto così com’è, vivendo però un’altra stagione di governo caratterizzata dai “ricatti” di quei partiti che, pur pesando meno dei “big”, rendono le coalizioni incredibilmente fragili.

Riccardo Ficara Pigini