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Nuove famiglie e monologhi stonati

Generare figli è un atto vitale di base, dall’inizio del genere umano. Questo sapevamo, perché la vita esiste in quanto si rinnova e viene trasmessa. Nessuno lo ha mai messo in discussione fino a pochi decenni fa, anche in occidente.

Se il moto che portava a procreare fosse migliore di quello attuale, ci sarebbe molto da discutere: braccia per l’agricoltura, carne da cannone o, per i ceti superiori, trasmissione del patrimonio ed eventualmente – lo abbiamo sentito dire – status symbol.

Molti studi ci hanno altresì parlato delle condizioni in cui le donne del popolo portavano avanti faticose gravidanze, situazioni di cui ancora si ha memoria: molti aborti spontanei, quelli procurati finivano spesso drammaticamente, fatiche immani con gestazione in corso senza controlli prenatali, il parto affidato a ostetriche che non sempre erano all’altezza e molti decessi di neonati e infanti. Quanto alla salute della donna, per la gran massa dei derelitti della terra non era in primo piano. Peraltro, l’uomo della stessa condizione pativa sfruttamento e discredito sociale.

Tuttavia il mondo è andato avanti lo stesso, dicevano i nostri nonni a noi giovinastri ribelli, finiti nel tritacarne del consumismo, piacesse o meno. Non salti su qualcuno a dire che la cosa non lo riguardava, perché non abbiamo conosciuto chi non si facesse una doccia o non aprisse il gas per cucinare: i Dinamite Bla sono estinti da un pezzo.

Nel secondo dopoguerra emerse il femminismo, abbozzato nel secolo precedente; si fece strada una mentalità che favoriva il controllo delle nascite, uscirono le leggi per il progresso di genere, la donna iniziò a temere il disfacimento fisico portato dal “pancione”, venne dichiarata “the sex war”; si spinse il papà affinché assistesse al parto, cambiasse il pannolino al fantolo e lo conducesse ai giardinetti in passeggino.

Successivamente si è assistito al calo della natalità, particolarmente accentuato in alcuni paesi tra cui l’Italia, a una crescente infertilità e a fenomeni connessi, analizzati sempre ideologicamente, ciò che per noi è punto di rottura: che esista un piano Kalergi, si sia favorita l’estinzione a favore della “invasione” degli immigrati e altre storie, per noi non è il tema.

Il massimo rispetto per le opinioni altrui è tenuto in così grande considerazione, che oggi ci si stupisce quando qualcuno decide di mettere al mondo prole, piuttosto che il contrario, anche perché la gioventù attuale è una vera rottura di sacco: i figlioli ti costano una cifra, sono anarchici, pieni di sé, sconsiderati (anche perché talora figli di genitori a loro simili se non peggio) e sempre pronti a ribattere che “non hanno chiesto di venire al mondo”, frase priva di significato. Infatti assecondare un impulso naturale viene demonizzato come se generare portasse con sé in automatico l’assicurazione di magnifiche sorti progressive: di talché si assiste a fenomeni estremi, dall’adorazione della progenie all’insensibilità verso di essa, come la cronaca insegna.

Tuttavia, di pari passo alla crescente indifferenza verso l’autorealizzazione attraverso la perpetuazione, anche a causa del bombardamento contro la presenza del genere umano sulla terra (siamo pessimi, malvagi, devastatori e sostanzialmente inutili, ma quando lo affermiamo pensiamo sempre agli altri, mai a noi stessi), è avanzata la ricerca medica e sono spuntate maternità tardive: ovuli donati, la nonna al posto della figlia, l’eterologa, l’utero della donna indiana col marito che incassa i dollari, ma quando lei torna a casa ribolle d’ira per la profanazione del corpo di lei, le teenager che regalano gli indesiderati figlioletti alla riccona californiana a cui manca solo l’esibizione del bambolotto in carne e ossa, perché il cagnolino diamantato non le basta più, e potremmo proseguire: ricordando il caso nostrano, uno per tutti, di Nichi Vendola.

Il tutto è condito dalla più tradizionale delle forme di aumento della famiglia in assenza di cicogna più o meno fisiologica, senza l’aiuto della biologia ma del portafoglio: l’adozione.

Mettiamo da parte l’acquisizione legale dei figli del partner, detta affiliazione. Essa presenta problemi di altra natura, dopo l’impatto con ragazzini che, in genere, rifiutano matrigne per un verso, e patrigni dall’altro.

Restiamo in Italia e alle prime adozioni. All’inizio si pescava tra bimbi negli orfanatrofi, che non mancavano, visto il gran numero di ragazze madri proletarie (quelle VIP, se la sbrigavano in altro modo). Quando la prima infanzia iniziò a scarseggiare, ecco che gli infertili si ritrovarono frustrati per l’assenza di marmocchi, situazione che li costringeva a guardarsi in faccia tutto il giorno, alla ricerca delle grane che evidentemente loro mancavano. Una parte accettò l’affido, che a volte sbocciava in quello definitivo: si tratta di bimbini disagiati, come si dice ora provenienti da famiglie “problematiche”, con lo strascico di polemiche sulle decisioni degli assistenti sociali e le modalità con cui i piccoli vengono tolti alla famiglia d’origine.

Altre coppie hanno optato per l’adozione internazionale. I traffici legati a questa modalità salirono alla ribalta con il caso di Serena Cruz, nel 1989

Di solito è la donna che spinge verso questo tipo di soluzione. Prendere questi poveri bimbi e toglierli dalla sofferenza è azione degna della massima lode, ma costa una cifra e il business è infinito; si scelgono il colore e l’area di provenienza dell’adottando, come al mercato; e quando il fortunato, perché certamente lo è rispetto ad altri simili, viene catapultato se va bene a qualche centinaio di chilometri da dove è nato, o a migliaia talvolta, poco passa che ha gli stessi problemi dei coetanei indigeni, con l’handicap della paralisi gestionale dei genitori adottivi, perennemente afflitti da sensi di colpa. Di più, troppi adottati adulti abbiamo ascoltato premettere lodi sperticate a chi li aveva cresciuti, ma lamentarsi amaramente di non riuscire a trovare quantomeno la madre “vera”.

Qualche volta è andata bene? Certamente sì, ognuno può citare casi, anche di evolutissime coppie che hanno scelto di accogliere disabili. Tuttavia abbiamo sempre con noi la figuretta di Marianna Cendron e di ciò che ci hanno sempre raccontato su di lei: bulgara tolta al brefotrofio in patria, col fratellino, e fuggita il giorno dopo il diciottesimo compleanno da un nucleo familiare che ogni bene e tanto amore le aveva offerto, per mai più tornare a casa, tuttora scomparsa.

Tutte le considerazioni del mondo vengono oggi frantumate dalla distruzione dei “vecchi valori”, che sono tanto obsoleti da venire in realtà riproposti solo invertendo l’ordine dei fattori: papà e mamma non sono più di moda, hanno fatto solo danni. Ovviamente è inutile far notare che chi non fa non falla.

Ed ecco che sul palco di Sanremo, tra le tante proposizioni che nulla c’entrano con la musica ma fanno happening, ci viene gentilmente offerto il monologo di Chiara Francini.

Si tratta di un testo da laboratorio teatrale, astuto, elicoidale, dove chi segue si avvita ad ogni parola, ritrovandosi accusatore e accusato, d’accordo e in disaccordo, respinto o promosso, schiacciato o proiettato; un’idea raffinatissima che lascia col cerino in mano, in attesa della prossima trovata.

In ogni caso l’esposizione sanremese stona con la musica, forse perché oggi essere intonati non è più importante.

Carmen Gueye