La Ciociaria è un territorio laziale che brilla da sempre di luce propria, per una quantità di ragioni: il panorama orografico naif, che sembra disegnato da un bimbo delle elementari, con i montarozzi, le praterie e i borghi sui cocuzzoli; la personalità degli abitanti, considerati quasi un’etnia a parte, di temperamento sanguigno ed esuberante, spesso caricaturato nelle commedie all’italiana, che identificano in loro (con romano sarcasmo) la tipologia del contadino ruspante e grezzo; l’archetipo della “Ciociara” veicolato dal romanzo di Alberto Moravia e dall’omonimo film onusto di gloria, a conduzione De Sica e una Loren esplosiva, simbolo della incontenibile sensualità delle donne del posto; le location degli spaghetti western; i colonnelli del nostro cinema, da Mastroianni a Manfredi, e altro ancora, come il bombardamento sulla rarefatta altura di Montecassino, icona della distruzione di un pezzo di storia portato dalle guerre nel nostro pittorico paese.
Resta in piedi una querelle sui comuni che rientrano nel perimetro magico ciociaro e non sempre si trova concordia, ma in genere si applica un criterio di simpatia, anche se non strettamente storico/geografico.
Il tempo ha portato ovunque, anche qui, l’intonaco della modernità e del globalismo, e la natura verace si è contaminata con lo sfigurarsi del tessuto sociale. E’ il 2001, il mondo parla del G8 e dei futuri assestamenti di una società sempre più assimilata nella rincorsa al nuovo, alle tecnologie, ai diritti di tutti. Ma il diritto alla giustizia, proprio qui, subisce un duro colpo.
L’anno scorso si è concluso il primo grado del processo contro la famiglia del maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, con un’assoluzione, per l’agghiacciante fine di Serena Mollicone.
La liceale sparì il primo giugno 2001 e fu ritrovata due giorni dopo in un recesso boscoso sull’ansa del fiume Liri, chiamato Fonte Cupa, adibito a discarica, spaccio e incontri mercenari. Il corpo era praticamente “confezionato”, legato con carta da pacchi e fil di ferro alle caviglie, ai polsi, e nella zona del viso, coperto da un sacchetto; all’apertura si notò una ferita a uno zigomo, da corpo contundente. Un dettaglio che ancora fa pensare: le suole degli scarponcini molto pulite, quasi lucide.
Guglielmo Mollicone all’epoca è un maestro elementare sui cinquant’anni, una certa somiglianza con Francesco Totti; gestisce una cartolibreria in Arce ed è vedovo da diversi anni, con due giovani figlie, Consuelo la maggiore e la più piccola Serena, diciottenne, studentessa presso il liceo sociopsicopedagogico, prossima all’esame di maturità, clarinetto nella banda del paese.
Si tratta di una famiglia conosciuta, come lo sono tutte in un piccolo centro, ma all’alba del nuovo millennio le strutture comunitarie non tengono più a bada la collettività, i cellulari già impazzano e la gioventù sbanda.
Serena, piccola e minuta, abbigliata secondo i dettami giovanili e antagonisti di allora, pantaloni a pinocchietto, anfibi enormi, blusa a fiori corta sul pancino, ha appuntamento nella prima mattinata di quel giorno presso un laboratorio a Isola del Liri, per un’ortopanoramica, dunque non va a scuola ed esce presto da casa. Terminato l’impegno medico, però, i suoi passi sono ad oggi sconosciuti: non incerti, ma proprio ignoti. L’addetta ha testimoniato che Serena desiderava acquisire subito la radiografia, per portarla dal dentista, ma non era possibile e lei se ne andò. Più d’uno ha confermato la sua tendenza a fare l’autostop, che coinciderebbe con la dichiarazione di un suo conoscente quasi certo di averla vista salire, in quelle ore, su una vettura. Le amiche la descrivono fiduciosa nel prossimo, dunque lei avrebbe accettato passaggi da sconosciuti; ma in particolare parlano di un certo signore che soleva portarla a scuola. Alcuni avvistamenti si rivelarono fallaci; un poco più credibile è sembrata la dichiarazione di una teste che la conosceva ed è convinta di averla salutata al mercatino di Arce, verso l’una.
Serena all’epoca ha un fidanzato, Michele Fioretti, da circa un anno e mezzo, ma i media sono vaghi rispetto a questo legame, che appare evanescente, come se la giovane conducesse una vita tutto sommato abbastanza indipendente: tanto che Michele è stato poi pacificamente creduto quando si è chiamato fuori da quella giornata. Lui la attendeva dal dentista verso le due del pomeriggio, ma lei non arrivò; la chiamò senza successo perché l’Eriksson della sua morosa funzionava male, tenuto assieme perfino con un elastico; e questo è tutto.
Fioretti e la madre, Rosina Partigianoni, nel 2011 furono indagati, secondo un teorema che li avrebbe visti responsabili insieme – ma non in concorso – con il comandante della stazione carabinieri di Arce, Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Annamaria. Fioretti e la Partigianoni verranno prosciolti e resteranno in campo i soli Mottola, con l’accusa di omicidio tra le mura della caserma dei carabinieri, in un appartamento adiacente.
Nel 2002 entra in campo l’UACV, unità analisi crimine violento, della Polizia di Stato che, in base al contenuto di un fantomatico biglietto, arresta il carrozziere Carmine Belli. Nelle immagini dell’arresto si vede chiaramente una nostra vecchia conoscenza, Giuseppe Pizzo. Allora poliziotto, Pizzo aveva già infilato una figura non brillante come testimone al primo processo Pacciani, mostrando incompetenza sulle attività agricole che egli scambiò per interramento di un proiettile, volto ad accusare il contadino di Mercatale come mostro di Firenze. Nel frattempo Giuseppe diventa un cronista di punta a “Chi l’ha visto?”. In aula, al processo contro la famiglia Mottola, si è prodotto in una deposizione da servizio televisivo più che da testimone. Alla tesi del carrozziere colpevole avrebbe aderito, in un primo tempo, anche Guglielmo Mollicone.
Belli si farà 17 mesi di carcere preventivo, prima della completa assoluzione. Viene sentito al processo Mottola, quando dovrà ammettere che frequentava quelle boscaglie in cerca di prostitute; e soprattutto confermerà di aver visto quel primo giugno una figura somigliante a Serena davanti al bar Chioppetelle, in lacrime mentre discuteva con un giovane ma, essendo in movimento sull’auto guidata dal socio, non fu in grado di identificare o descrivere utilmente il ragazzo. Carmine aggiunge che il brigadiere Santino Tuzi, alla sua liberazione, lo avvicinò chiedendogli scusa, per poi rapidamente allontanarsi.
In aula viene convocata anche Simonetta Bianchi, al tempo barista nel tempo libero, oggi professoressa di matematica, che dichiara di non ricordare nulla; ma sia lei che Belli in quei giorni accennarono a questo ragazzo con le mèches, alto meno di 1,70, mentre Marco supera il metro e ottanta. Quanto alla ragazza che avrebbe sostato dinanzi all’esercizio, probabilmente non era Serena. Parliamo del 2 giugno, prima del ritrovamento, quando Franco Mottola ascoltava informalmente i cittadini: questa mancata verbalizzazione verrà vista come una volontaria omissione.
Gli anni passano e papà Mollicone è spesso ospite della Sciarelli. Il primo elemento messo in evidenza nelle sue dichiarazioni televisive è l’intervento, ai funerali della figlia, del maresciallo Mottola, che lo prelevò per condurlo in caserma con la motivazione di accertamenti d’urgenza: dopo che lo stesso Guglielmo aveva rinvenuto in un cassetto il cellulare di Serena, non trovato nelle prime perquisizioni.
Tra un’intervista e l’altra si verifica un altro dramma. Il brigadiere Santino Tuzi, già in forza alla caserma di Arce, si suicida nel 2008 con la pistola d’ordinanza, nella sua auto.
Anno dopo anno, implacabilmente, si annidano nubi sulla famiglia del comandante Mottola, nel frattempo in pensione. Il teorema è il seguente; il maresciallo ha un figlio scapestrato, Marco, coetaneo di Serena, i due si frequentano sporadicamente a livello di comitive paesane; il giovincello si droga e spaccia; Serena, dotata di una spiccata coscienza sociale, intende denunciarlo.
La mattina del primo giugno l’adolescente, mancata la visita dal dentista perché non ancora in possesso dell’ortopanoramica e ormai troppo in ritardo per recuperare la mattinata scolastica, decide di filare dritta in caserma per formalizzare la denuncia, senza fare i conti con l’ovvia ostilità del papà di Marco e l’omertà dei sottoposti. L’unico che sostiene di averla notata è Tuzi: l’avrebbe vista entrare ma mai uscire, e desidera esternare i suoi dubbi ma, intimorito e soggiogato, viene indotto al silenzio, cade in una profonda depressione e finisce per togliersi la vita.
Come accade spesso in casi del genere, si forma un blocco di pensiero nell’opinione pubblica, irretita dai programmi specializzati e dalla naturale solidarietà verso i parenti delle vittime; si aggiunga un certo finto ribellismo molto tipico dello stivale degli ultimi decenni, ben orientato dalla propaganda, che trasforma molti cittadini in novelli Masaniello, giustizialisti verso il piccolo potente di turno, in questo caso Mottola.
Franco, il capofamiglia, avrebbe dunque ucciso l’impavida ragazzina aiutato dal figliolo, in un’abitazione sfitta sottostante a quella di servizio di cui aveva la disponibilità; insieme a Marco, e alla moglie Annamaria, avrebbero poi provveduto a “sigillarne” il corpo.
La vicenda si inscriverebbe in un clima favorevole al “delitto di famiglia”, di cui troviamo i maggiori esempi nei casi Vannini e Scazzi.
Rimaneva il problema dell’arma del delitto, che in verità spesso non viene reperita. Partendo dalle fratture sullo zigomo della vittima, dopo sopralluoghi minuziosi a distanza di anni, si scopre che la porta dell’alloggio vuoto presentava un’alterazione e si trova la quadra: la fanciulla è stata sbattuta con violenza contro la superficie dell’anta intaccata, poi soffocata ancora viva, e “sistemata” in vista dell’occultamento. Si da per certo che non sia stata portata nel boschetto appena morta, perché le prime battute di ricerca (anche aeree) andarono a vuoto e solo il 3 giugno alcuni ragazzi della protezione civile si accorsero di quel corpo, nemmeno troppo lontano dalla strada; dunque la diabolica famiglia si sarebbe tenuta il cadavere in casa per molte ore (l’orario del decesso non è accertato).
Partono le sofisticatissime analisi peritali sul manufatto, che indirizzano verso una possibile dinamica criminosa, ovvero: dopo un qualche inevitabile alterco uno dei due uomini, padre o figlio o entrambi, scaraventano l’esile Serena contro la porta. Se sia stato atto premeditato o preterintenzionale non viene approfondito, si passa direttamente alla conseguenza: la ragazza è tramortita, ormai bisogna farla sparire. Come consumati sicari, i due, insieme a mamma Annamaria appositamente convocata, finiscono il lavoro asfissiandola con un sacchetto di plastica, poi si mettono di lena all’opera, con fil di ferro e nastro da pacchi.
Tale scenario viene ritenuto ferreo e inattaccabile, con la pubblica lapidazione della famiglia Mottola e la pacifica aspettativa che seguirà una condanna. Nel frattempo, siamo nel 2020, Guglielmo, già menomato da un ictus, si spegne volando verso l’amata figlia.
Il procedimento va avanti e si arriva al dibattimento, nel 2022, con schieramenti di tutto rispetto: consulente per la parte civile è Roberta Bruzzone, per la difesa il criminologo Carmelo lavorino, questi già nel pool che aveva portato all’assoluzione di Carmine Belli. Sui banchi dell’accusa troviamo due agguerrite donne PM.
Il dibattimento prende una piega inattesa e mette in luce risvolti che i media principali avevano sempre sottaciuto.
Esistevano contrasti interni in quella caserma, soprattutto dopo l’arrivo del nuovo comandante, circostanza in fondo comune a tanti posti di lavoro, ma lì galleggiava l’affaire Mollicone e gli animi erano inquieti. Santino Tuzi era un uomo in affanno, soprattutto per ragioni personali, segnatamente la rottura di una relazione extraconiugale da lui subita, che lo aveva reso ancora più ombroso del solito. Venne fuori che l’irruzione in chiesa durante i funerali di Serena non era stata un’iniziativa di Mottola, ma egli aveva eseguito una disposizione dell’autorità giudiziaria. Rimase il mistero del telefonino della piccola Mollicone, prima smarrito e poi ritrovato da papà nel cassetto in cameretta.
Veniamo al figlio Marco. Il giovane era stato in effetti un soggetto discolo, che molti grattacapi dava al babbo militare. A processo l’ormai quarantenne ha ammesso di aver regolarmente pippato erba e talora assunto cocaina, ma mai spacciato; tanto è vero che per acquistare le dosi si vendette gli ori ricevuti in regalo da piccolo e nessuno della vecchia compagnia di amici dichiarò di averlo mai visto vendere stupefacenti. Emerse il vizietto generalizzato, oggi ritenuto più che veniale, di “fumare” , che solleva dal tedio delle giornate provinciali e a cui ogni tanto la stessa Serena si associava; sbiadì quindi l’immagine della precoce pasionaria intenta a far giustizia delle debosce dei coetanei.
Il giovanotto misterioso che fu visto far piangere la presunta Serena veniva definito biondiccio, “mesciato”. Marco, immortalato ai funerali della ragazza, fu sovrapposto a tale immagine, anche se il suo colore naturale è castano chiaro; e la foto che lo ritrae dietro la bara apparve schiarita artificiosamente.
Non esistono testimonianze su particolari frequentazioni tra Marco e serena ed è scomparsa dalle cronache la leggenda di una loro litigata in piazza. Non sono state reperite tracce genetiche dei Mottola, né a Fonte Cupa né sul materiale che fasciava il cadavere, piuttosto impronte papillari di maschio ignoto. In particolare all’interno e lungo lo scotch sono state prelevate delle particelle legnose, che si voleva ricondurre alla famosa porta. Ma che importanza si può attribuire a questo elemento? Se fosse esistito un contatto tra porta e zigomo, su quest’ultimo si sarebbero trovati i frammenti; i quali, analizzati, hanno mostrato una minima compatibilità con il materiale del pannello. Quanto alla traccia su quest’ultimo, sono state effettuate prove tecniche di colpi teorici tra un cranio e la porta, non c’è corrispondenza.
Si scoprì che Franco, durante un attacco di collera tra i tanti che gli provocava lo spavaldo figlio, aveva sferrato un pugno, provocando un danno alla porta di un bagno della loro abitazione; fu così che la scambiò con quella dell’appartamento vuoto. D’altronde l’avvallamento è più in alto sia della statura della vittima che, ovviamente, del punto in cui è stata colpita, allo zigomo.
In un estremo tentativo di far quadrare il cerchio la genetista Cattaneo, ennesimo esperto ad avventurarsi in ricostruzioni fuori dalle sue competenze, ipotizza che Serena sia stata sollevata e, così tenuta per aria, sbattuta contro la porta.
Tutto il costrutto accusatorio è stato puntellato da ipotesi, immaginazioni, tesi di recupero, che gli storiografi definiscono di scarto.
Al tempo si parlò di sette sataniche, anche perché era sulla cresta dell’onda tale teoria relativa all’indagine sul Mostro di Firenze, appena riaperta, per l’ennesima e non ultima volta. In effetti al funerale della giovane si sarebbe presentato qualcuno, chi dice un boss della mala campano/laziale, chi riferisce di una donna, con una “rosa rossa”, nome di una setta che compare in molte narrazioni; e nella rubrica telefonica di Serena c’era la voce Diavolo 666, che solo lei poteva aver inserito, poiché per entrare occorreva il PIN.
A “Porta a porta”, subito piombato sul caso, furono invitati il criminologo e consulente della difesa Pacciani, Francesco Bruno, che non escluse di principio tale possibilità e lo scrittore Alberto Bevilacqua. Quest’ultimo aveva passato i suoi guai allorché la nota spiritista sedicente esperta Gabriella Carlizzi aveva alluso a lui come possibile mostro di Firenze, ma nell’occasione si trovarono d’accordo su Arce satanista.
Carlizzi, dotata della rara capacità di farsi invitare nelle maggiori trasmissioni buttando in caciara tutte le tesi che già faticavano a stare in piedi da sole, in altro programma televisivo ovviamente rincarò la dose con le sue tesi esoteriche.
Dobbiamo fare a meno di piste azzardate, poiché sprovviste di basi adatte ad argomentare. Un luogo dal nome suggestivo per l’occultamento e un trattamento del cadavere che sembra rispondere a una ritualistica non sono sufficienti a sviluppare uno scenario alternativo.
Sarebbe interessante visionare il verbale di interrogatorio di Tuzi, durato, ci dicono, quasi un’intera giornata, di cui solo tre ore sono rimaste registrate. Da quel poco che si è ascoltato Santino appare ormai inerme, tra le mani degli interroganti, un suo superiore, un PM e una psicologa dell’Arma, che lo martellano affinché ritratti la ritrattazione, ma lui resiste e sostanzialmente, a conti fatti, nega l’avvistamento di Serena e non vuole saperne di confermare di averla vista il primo giugno; con un collega che cercava di cavargli una confidenza, si limitò a parlare genericamente di una ragazza
Perché mai, a suo tempo Tuzi aveva querelato il nuovo comandante Evangelista, subentrato a Mottola, che dopo l’assoluzione di Belli aveva ripreso in mano l’indagine? E ancora, la sua ex Annarita Torriero ha dichiarato che Serena ogni tanto andava in caserma, si incrociavano; ma il primo giugno Santino era fuori per servizio e per circa cinque ore il suo cellulare non registrò traffico. Il brigadiere sembra redigesse i servizi con approssimazione; sua figlia parla di scarsa scolarizzazione, solo la licenza elementare. Invece vorremmo sapere qualcosa riguardo i tabulati del telefonino della vittima, su cui si è sorvolato e pure dovrebbero fornire notizie interessanti.
Dopo l’assoluzione in primo grado la famiglia Mottola appare in parte sollevata, anche se si attende il secondo round. Pare che gli appellanti insistano a convocare il barbiere che ogni tanto schiariva la chioma di Marco Mottola. Ma la domanda è piuttosto cosa combinava Santino Tuzi tanto da risolversi al suicidio, che non appare sufficientemente motivato da pene d’amore.
Il DNA è prova regina se si trova, ma diventa il convitato di pietra anche se assente, quando una tesi si vuole dimostrata a tutti i costi.
Pare dunque che anche questo mito sia destinato a cadere, con l’olimpo che lo circonda, fatto di perizie che suggeriscono invece di limitarsi a fornire dati, e criminologia che ci descrive l’indimostrabile ma, senza un soggetto davanti, non indica e non costituisce valido supporto alla verità: LA verità, non una purchessia.
Va ricordato qualche episodio nella carriera di Roberta Bruzzone, segnatamente i casi di Mario Biondo e Chico Forti, di cui ci siamo occupati, e dell’agente di custodia Sissy Trovato Mazza.
Inizialmente assoldata nel team dei rispettivi familiari, la psicologa finalese tuonò in televisione sull’incompetenza degli inquirenti spagnoli che avrebbero decretato il suicidio di Mario, tranne abbandonare il campo e dichiarare il contrario. Riguardo al caso Forti, Bruzzone sposò subito la tesi della sua innocenza, ma dopo qualche anno si tirò indietro. In merito alla strana morte di Sissy, di nuovo abbandonò l’iniziale posizione della famiglia che è tuttora convinta si sia trattato di omicidio e si allineò alla tesi ufficiale.
“Questo processo è una finzione”: lo ha affermato il presidente della corte d’assise di Cassino, che ha mandato assolti, per ora, gli imputati.
Carmen Gueye