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L’OPINIONE : quel 13 gennaio 2012 la “Costa Concordia” e nuovamente l’orgoglio italiano schiaffeggiato

Lo scorso 13 gennaio le reti televisive hanno ricordato la tragedia della “Costa Concordia” e al comportamento del Comandante Schettino che “affondò” l’orgoglio di essere italiani. Come il già l’8 settembre 1943.

Winston Churchill, nel corso della Seconda Guerra mondiale, ebbe a dire che degli italiani non ci si poteva fidare; ugualmente lo dissero i palestinesi dell’OLP negli anni ’80 e Gheddafi nel ’90 (come poi si è dimostrato nel 2011). Senza parlare poi degli “alleati” statunitensi che non sanno mai da quale parte stiamo (ancor oggi: siamo alleati nascosti della Cina e di altri Paesi arabi e africani che in geopolitica si mostrano ‘’antiamericani’’) e sulla politica europea poi… gli ‘’alleati’’ dell’UE, francesi e tedeschi in primis, che continuano a sbeffeggiarci.

Certamente dal 13 gennaio 2012 la patina del tempo si è ormai sedimentata sul nome di Francesco Schettino, ma, sino a pochi anni fa, lo si utilizzava come epitome di comportamenti oltraggiosi, codardi, confusionari. E perché poi!? Visto che è il comportamento ordinario “bilingue”, con i piedi su più staffe della maggioranza degli italiani… anche di coloro che siedono sui banchi parlamentari.

Sono infatti ben pochi gli italiani che hanno un comportamento lineare e anche di coraggio e quando emergono siamo subito pronti a denigrarli. Gli esempi potrei citarli, ma non lo faccio perché sono sicuro che anche voi siete in grado di identificarli, sia a livello nazionale che locale. Noi siamo i voltagabbana, i cambia bandiera… l’importante non è «con chi stare» ma «stare con il più forte» e adeguarsi. Come durante il fascismo… che c’erano 40 milioni di fascisti e poi il 25 aprile 40 milioni di antifascisti.

Con la Concordia non naufragò quel gioiello della cantieristica, dove migliaia di persone stavano godendosi le loro vacanze ed altre facevano di tutto per renderle felici. A fare naufragio fu l’orgoglio di un Paese, omologato ai comportamenti di un «uomo di mare» che tutti definivano come molto esperto, ma che, alla prova dei fatti, subì l’onta incancellabile, per un comandante, della paura e dell’abbandono della nave e del suo equipaggio. Come fece nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 il re Vittorio Emanuele III che fugge da Roma insieme alla regina Elena, al principe ereditario Umberto, al maresciallo Badoglio e lo Stato maggiore al completo, abbandonando gli uomini delle forze armate italiane a loro stessi e senza ordini e piani precisi nelle zone di guerra in cui si trovavano e la rappresaglia delle Forze Armate Tedesche, che li facevano prigionieri inviandoli nei campi di concentramento e nei campi di lavoro. Da ciò l’epiteto disqualificante di “badogliani’’.

Ancor oggi come Paese, dobbiamo dovuto sopportare i mezzi sorrisi, le smorfiette di altri che, davanti alla puntuale ricostruzione dei fatti e dei comportamenti, hanno pensato: ecco, vedete, i soliti italiani di sempre.

Ma la parabola del ‘’comandante’’ navale (ma non solo) è stata innanzitutto quella dell’uomo, che la legge della marineria definiscono come l’ultimo baluardo davanti all’emergenza, al pericolo. Invece il solo pensiero del contenuto delle telefonate tra lui e il comandante De Falco, che gli intimava di tornare a bordo, perché era lì il suo posto, ci hanno fatto capire che, dentro il doppio petto e gli alamari, sotto gli occhi che scrutano l’orizzonte e i capelli incollati alla testa da un quintale di gel, c’era semplicemente un uomo che, forse per la prima volta, si trovava a fronteggiare la paura, non sapendo cosa fare. Unica scusante umana ma non di servizio.

Parlare oggi della tragedia della Costa Concordia è, per molti giornalisti e per la gente comune, un modo per esorcizzarne il ricordo, un ammonimento affinché errori come quelli della notte di gennaio del 2012 non abbiano più a ripetersi. Così dovremmo fare anche nelle scuole, parlare dell’alleanza di Mussolini con Hitler con il beneplacito del Re (ricordiamolo che l’Italia in quegli anni era una monarchia se pur con un Parlamento e al governo Mussolini ch’era il primo ministro del Re) e parlare del successivo 8-9 settembre 1943, per averne un sincero e critico ricordo. E non invece cancellarli dalla memoria poiché, ovviamente, non si cancellano gli errori, ma li si usano per attrezzarsi, per prepararsi, per non farsi cogliere dall’improvvisazione, madre di molti morti.

Dal 2012 ad oggi non è passata una eternità e, per il tempo trascorso, non ci autorizza a sottovalutare l’accaduto. Basta solo pensare che, semplificando, abusando del concetto del giudicare la parte per l’intero, agli occhi di alcuni vicini di casa, reali o virtuali (europei, ma anche di Paesi lontani), più o meno amici, anche allora – come poco prima con Gheddafi – siamo diventati tutti «schettino».

È comunque difficile separare l’uomo Schettino, dal ‘’comandante Schettino’’ colpevole e dagli anni che gli restano da scontare in carcere, in quel percorso di “rieducazione” (così giuridicamente si chiama) che sta affrontando in carcere e che passa anche per studi di giurisprudenza e giornalismo. E’ così il carcere ed è così che lo Stato deve concorrere al recupero del condannato, e questo vale anche per Schettino.

Il punto principale è che non dovremmo essere come fu il comandante Schettino, ma dovremmo essere tutti come l’uomo Quattrocchi e fregiarsi di correttezza nei comportamenti, individuali come collettivi, come deve fare un popolo, una Nazione degna di essere considerata tale, anche se qualcuno dei suoi figli sbaglia.

Marco Affatigato

Riguardo l'autore

Marco Affatigato

nato il 14 luglio 1956, è uno scrittore e filosofo laureato in Filosofia - Scienze Umane e Esoteriche presso l'Università Marsilio Ficino. È membro di Reporter Sans Frontières, un'organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa.

Nel 1980 la rivista «l’Uomo Qualunque» ha pubblicato suoi interventi come articolista. Negli ultimi anni, ha collaborato regolarmente con la rivista online «Storia Verità» (www.storiaverita.org) dal 2020 al 2023.