Anche al Festival di Sanremo hanno voluto parlare di «carcere» e «reinserimento» ma poi, nella realtà dei fatti, sono ben pochi coloro che nelle amministrazioni comunali hanno volontà di «impegnarsi» per qualificare quel quartiere di città che è il carcere, struttura muraria ed i suoi residenti. Eppure in questa Italia progressista che, giustamente, ha anche un articolo della Costituzione che obbliga ad impegnarsi per il «recupero dei condannati» e il «reintegro nella società civile», sono stati proprio i governi di centro-sinistra a bloccare la possibilità «imprenditoriale» degli ex-detenuti – brutta parola.
E’ bene ricordare che il governo Mussolini, nel 1932, promulgò una legge con la quale si autorizzava il rilascio di una «autorizzazione ambulante» per la vendita di merci a coloro che uscivano dal carcere e ne facessero dovuto richiesta all’autorità comunale. Erano quindi facilitati. Negli anni ‘90 del secolo scorso, invece, si è tolta questa «possibilità lavorativa» e di reintegro nella società. Non solo gli ex-detenuti non possono esercitare alcuna attività in proprio né essere «soci» in imprese. Hanno il solo obbligo di «essere dipendenti» di altri se vogliono lavorare e qui’ le difficoltà iniziano: il casellario giudiziale e il fatto di essere un ex-detenuto.
Quell’ex-detenuto che è uscito dal carcere con un sacco nero, quello della spazzatura. Però è proprio in quel momento, dal varco della soglia di uscita da quel «quartiere» e compiuto il rito scaramantico di buttare nel primo cassonetto le ciabatte e insieme allo spazzolino da denti spezzato, usati durante la carcerazione, che chiude una ‘’storia’’ con la speranza di non ritornare più in carcere… incomincia il travaglio di una nuova ‘’avventura’’.
Naturalmente chi va in «detenzione domiciliare» o chi «entra in comunità» (normalmente i tossicodipendenti) ha già qualche certezza sul suo futuro prossimo, ma molti «liberati» non ne hanno alcuna. Per tanti di loro, anzi, vi è solo un grande punto interrogativo: dove andare? Non tutti, infatti, hanno o possono contare su una famiglia pronta a riaccogliergli – com’è stato per me – o la prospettiva di un lavoro – diventato difficile anche per me che, ogni volta, me lo sono dovuto letteralmente «inventare» – e , quindi, di un sostentamento economico per vivere dignitosamente (come si potuto pensare prima e poi di togliere l’assegno sociale agli ex detenuti che poteva permettergli il reintegro in società? Eh già! È stato tolto e non da governi «fascisti» ma da quelli che ogni giorno si sciacquano la bocca di «solidarietà»).
Il guaio sapete qual è? È che a quel punto interrogativo non si vuole trovare una adeguata risposta! E non trovando una adeguata risposta l’ex-detenuto torna spesso sulla strada della delinquenza e poi, di nuovo, dietro le sbarre. E ne ho viste tante di persone che hanno fatto questo percorso.
«Allora chi si dovrebbe occupare di coloro che escono dal carcere?». Legittima domanda che tutti noi dovremmo porci, sia come cittadini e ancor più se rivestiamo l’incarico di amministratori di un comune ove insiste il «quartiere carcere» e naturalmente dovrebbero porsela i politici a tutti i livelli.
Potreste pensare che esiste un «servizio» esterno? No! Potreste allora pensare agli «assistenti sociali» comunali… non è il loro compito, ti rispondono. Passata la sbarra della casa di detenzione, lo Stato (in tutti i suoi livelli) chiude la «pratica» e il «liberato» deve arrangiarsi da solo.
È difficile perfino trovare le parole per esprimere quanto ciò sia difficile per la maggior parte di «liberati» ma sempre ex-detenuti. Se entrare in carcere è un trauma, anche uscire è un trauma. Persone completamente spaesate, buttate in strada dopo anni di reclusione, alcuni molto spesso con età superiori ai cinquanta-sessanta ed ho visto anche settantenni senza un soldo in tasca e senza nemmeno sapere dove andare. Sono colti da un vero stato di malessere.
Un grazie può andare alle «associazioni di volontariato» che frequentano le carceri, ma adesso anche queste sono state «limitate», non certamente alle rappresentanze dello Stato.
Per concludere, quindi, se non si comprenderà, a livello comunale, veramente l’importanza di curare il carcere come luogo di «custodia del condannato» ma anche come luogo «preparativo al reinserimento sociale» di coloro che vi sono dentro e usciranno, le celle saranno sempre sovraffollate, le strade saranno sempre piene di chi commette reati e vive di espedienti perché in qualche modo deve pur mangiare e pagare un canone di affitto quando non deve crescere una famiglia.
Marco Affatigato