“Indipendenza!” è impegnata nel compito di farsi conoscere alle elezioni regionali della Liguria, dopo la sciagurata vicenda riguardante l‘ex governatore Toti.
La regione è in preda al disordine da tempo immemore e le responsabilità sono da dividersi equamente tra destra e sinistra, che l’hanno retta in continuità con i discutibili trascorsi degli ultimi decenni del secolo scorso.
Il territorio è difficile: una striscia marina chiusa dalla corona appenninica che, se conferisce un indiscutibile fascino paesaggistico, ostacola la realizzazione di una rete di trasporti efficiente e fluida; tuttavia il problema si poteva affrontare prima che traffici e commerci su gomma si facessero intensi al punto di ricorrere, nel migliore dei casi, a soluzioni strutturalmente emergenziali. La vicina Costa Azzurra, con una orografia molto simile, presenta una scioltezza di scorrimento molto maggiore, sia ferroviaria che stradale. E, ancora in tema di paragoni, il contrasto tra le contigue Ventimiglia e Mentone è da sempre impietoso è imbarazzante a nostro sfavore.
In materia di ferrovia, ricordiamo la “delocalizzazione” della stazione di Sanremo, rimossa nel 2001 dalla antica sede marina e spostata in periferia, in un reticolo di tunnel asfittici e pericolosi.
Un caso emblematico è stato anche, a suo tempo, quello della stazione di Diano. La famosa località balneare un tempo Diano Marina, con la corolla di San Pietro, Castello e Arentino, veniva servita da una stazione rivierasca storica e di gradevole aspetto d’antan, poi sostituita da quella complessiva in una terra di nessuno scomoda da raggiungere: un progetto avviato da anni, oggi impossibile da frenare, che nulla ha aggiunto in termini di velocizzazione o aumento delle corse. Più sconsolante ancora risulterebbe trattare di autostrade.
L’ideologia green, spina nel fianco della civiltà occidentale, si riverbera ancor più dolorosamente sulla Liguria, terra di pochi spazi in cui l’antropizzazione fece miracoli: basti pensare ai terrazzamenti, frutto del duro lavoro di contadini del passato, da cui sono nati preziosi prodotti come olio e vino dell’imperiese e le serre di fiori esportati in tutto il mondo, oggi spesso in desolante abbandono.
La città “monstre”, la nostra amata Genova, ha visto ridurre gli spazi pedonali a campo di battaglia tra monopattini sfreccianti, improbabili velocipedi più fermi che in movimento, marciapiedi devastati e occupati da mezzi a motore; né l‘elettrico ha potuto dimostrarsi una soluzione.
Il vero nemico della pubblica amministrazione è oggi il trasporto privato; i parcheggi vengono aboliti, in cambio di una metro meno competitiva di un vetturale; e progetti, come quello del trambus Marassi/Campi, inutile ai fini pratici, distruggerebbero quel poco di agibilità che ancora conserva corso Sardegna (tra le poche arterie spaziose nel capoluogo, naturale sbocco dell’uscita Genova est).
Né si può perennemente invocare l’esigenza di “verde”. La manutenzione degli alberi è costosa quasi quanto un letto d’ospedale, le radici distruggono il suolo e in certi giardini si trovano più pusher che bambini a giocare. Si è inoltre estinta la “razza” dei netturbini e nessuno pulisce strade degne del vecchio Bronx e colme di deiezioni canine che ammorbano il tessuto viario. La sicurezza appare di nuovo in caduta libera. Sono tornati i gruppi di punkabbestia, invecchiati di vent’anni e deflagra il fenomeno dell’immigrazione a vuoto.
Le città liguri non conoscono solidarietà nemmeno sul fronte del mare, che dovrebbe unirle negli scopi e nei mezzi: esse si contendono il business, come quello crocieristico, come non ci fosse un domani.
Nondimeno molte questioni si presentano a carattere nazionale, se solo pensiamo a come è ridotta la stazione Termini, e così può dirsi della sanità: difficile occuparsene con proteste generiche, se un governo nazionale non recupererà la lucidità della tolleranza zero e un’idea solidaristica e non aziendale del settore sanitario. E se non si smetterà di riempire le città di fruttivendoli bangla arrivati qui sulla spinta della politica globalista, senza trovare fortuna, ma solo sussidi che gravano sullo schiantato contribuente italiano.
Recuperare la propria identità non significa ritornare a un’era bigotta e codina, ma saper mettere punti fermi e riguadagnare fermezza rispetto a fenomeni come la lotta all’inesistente patriarcato, pretesto per distruggere il tessuto sociale tradizionale: dove per tradizionale si intende la coppia tra uomo e donna e il diritto a una famiglia che oggi non riceve alcun aiuto, anche ammesso che ciascuno voglia crearsene più di una nel tempo: non è religione, è diritto naturale.
Opporsi al sopruso significa non subire più la clausura “pandemica” sulla base di dati errati che oggi ci danno ragione: non esisteva alcuna emergenza per imporre il nazipass e mai nessuna ne dovrà esistere per defraudare la persona di suoi diritti inalienabili.
“Indipendenza!” sarà in grado di lottare per tutto questo? Il rischio è quello di cavalcare gli argomenti dell’avversario e di essere presto risucchiati nelle sue malate dinamiche mentali. La Liguria, come l’Italia tutta, ha bisogno di interventi materiali e ideali (non ideologici) a lunga gittata, di cui occorre farsi promotori, con tutti i rischi del caso.
Carmen Gueye