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Da Steven Woolfe a Donald Trump: la lealtà in politica

Steven Woolfe, dopo l’incidente occorsogli una settimana fa, sta meglio. Lo annunciano molti suoi colleghi e soprattutto Nigel Farage, l’ex-leader dell’UKIP, il partito populista di destra britannico, che ha visto in Woolfe un ottimo candidato alla successione alla guida del partito.
Farage, infatti, dichiarando di aver raggiunto l’obiettivo della sua carriera, contribuendo in maniera decisiva alla vittoria del Leave durante il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, si è dimesso da leader. Decisione che è stata contestata da più parti, specie dai sostenitori del Remain: perché combattere per un’intera vita (politica) contro qualcosa e poi, una volta che la si ottiene, lasciare, invece di tentare di cavalcare l’onda per poter costruire una Gran Bretagna più solida dopo lo “scossone” europeo?
Ma in realtà la scelta di Farage è stata la più onesta e leale possibile: quando si raggiunge il proprio obiettivo, il proprio corso è terminato e bisogna quindi dare spazio ad altri, motivati da un nuovo obiettivo. Altri come Steven Woolfe.
Tornando a Woolfe, non sono ancora ben chiari i dettagli dell’incidente. Le immagini che giungono dal sistema di sicurezza del Palazzo d’Europa di Strasburgo mostrano, infatti, solamente il povero eurodeputato accasciato a terra e prontamente soccorso.
Alcuni parlano di un malore, dovuto allo stress, mentre altri (più maliziosi, ma anche più numerosi) dicono che sia avvenuto un alterco con un altro eurodeputato, Mike Hookem riferisce la BBC, il quale lo avrebbe “atterrato” dopo una serie di pugni. Se questo alterco si sia verificato per motivi personali o per motivi politici non è dato saperlo. Ma se fosse vero che un collega, dello stesso partito, ha picchiato il futuro leader perché non in accordo con la sua elezione, si tratterebbe di un fatto gravissimo.
Le opposizioni, anche interne, devono esistere, ci mancherebbe: la politica è fatta di discussioni, di dibattiti, di ricerca di soluzioni per accontentare il più possibile. Ma una cosa è fare un’opposizione interna a chi è al potere, in maniera intelligente e costruttiva, una cosa è istituire una minoranza interna, basata quasi esclusivamente sul disprezzo per il leader e con l’unico intento di farlo capitolare.
Di esempi in Italia ne abbiamo a bizzeffe, anche se i nostri politici non si sono mai permessi di mandare all’ospedale per percosse né BerlusconiRenzi, anche se spesso alcuni “divorzi” sono stati dolorosi quanto una rissa.
Bisogna però distinguere delle differenze tra chi, non riconoscendosi più nella linea del partito, ha deciso di andarsene, creando di fatto una nuova area per contribuire alla discussione politica, come hanno fatto la Meloni  e La Russa nel fondare Fratelli d’Italia, oppure Fitto con Conservatori e Riformisti, oppure, per passare a sinistra, Civati con Possibile e chi invece è rimasto spesso e volentieri al fianco del leader salvo poi pugnalarlo alle spalle, come fecero Fini prima e Alfano poi con Silvio Berlusconi e come sta tentando di fare la minoranza dem con Matteo Renzi.
Una questione di lealtà, di rispetto, di interesse non verso la destituzione dell’altro ma verso la creazione di un qualcosa di nuovo. Questo dovrebbero imparare alcuni nostri politici e il signor Hookem: colpire (fisicamente o politicamente) il proprio leader difficilmente porta a un risultato effettivo e sicuramente non porta ad una discussione.
Va detto, però, che a volte i capi dei partiti dovrebbero anche rendere conto del potere che hanno i propri candidati: l’esempio più lampante è quello di Donald Trump, al quale il Partito Repubblicano ha chiuso i fondi per la campagna elettorale, dopo l’uscita delle frasi sessiste pronunciate dal Tycoon nel 2006 presso il programma radiofonico di Howard Stern.
Certamente, frasi come quelle possono destabilizzare un elettorato e portano con loro una quantità incredibile di polemiche, ma un candidato che ha stravinto le primarie nonostante ci fossero molti altri candidati autorevoli (come ad esempio Ted Cruz), un candidato che durante tutta la campagna elettorale è sempre stato incollato nei sondaggi ad Hillary Clinton, un candidato che dopo anni di ricerche rappresenta finalmente a pieno titolo l’elettorato repubblicano non merita forse rispetto e supporto da parte del proprio partito?
Certamente i Bush possono criticarlo e contestarlo, ne hanno facoltà, ma se un partito non finanzia nemmeno il proprio candidato, eletto dal proprio elettorato, chi deve finanziare? Si tratta di una semplice, ma come visto raramente rispettata, questione di lealtà, che passa dai finanziamenti alle minoranze interne. Quando la politica riscoprirà il sano valore del rispetto, probabilmente il livello del dibattito tornerà ad alzarsi, superando finalmente la piaga dell’arrivismo puro e semplice.