So che non è prassi corretta, per uno storico, fare paragoni tra le varie epoche, giacchè, dietro l’apparenza di analogie formidabili, nella realtà le cose sono sempre assai diverse: tuttavia, vorrei partire proprio da un paragone di questo genere per suggerirvi una strategia culturale e politica che, credo, potrebbe portare qualche risultato, in una terra dalla forte identità territoriale come il Trentino.
Guardando ai nostri tempi, credo sia inevitabile constatare che stiamo attraversando una crisi di valori, di civiltà, perfino del banale buonsenso, che, probabilmente, non ha eguale in epoca moderna: questo, da un lato, ci rende fiacchi di fronte al progressivo sgretolarsi dei fondamenti tradizionali delle nostre esistenze e, dall’altro, ci offre alla penetrazione culturale, ideologica, religiosa, di fedi e di sistemi di pensiero più robusti ed aggressivi dei nostri.
In altre parole, siamo una società debilitata e assediata.
Questo, inevitabilmente, mi rimanda col pensiero al cosiddetto “secolo di ferro”: a quel Seicento che vide l’Europa stremata da guerra sanguinose, legate soprattutto alla religione, spopolata da epidemie devastanti e assediata, fin sotto le mura di Vienna, dalla minaccia ottomana.
Ebbene, al di là delle vittorie di Jan Sobieski e di Eugenio di Savoia, la rinascita culturale del nostro vecchio continente si legò, almeno all’inizio, a piccoli nuclei di intellettuali, che, partendo dal vagheggiamento nostalgico di un’inesistita Età dell’Oro, giunsero, poi, a diventare elemento trainante di una politica di benessere civico, di moderatismo illuminato e di felice collaborazione tra il potere supremo e le classi intermedie.
Mi riferisco alle Accademie, prima d’Arcadia e poi illuministe, che, nel XVIII secolo, restituirono a un territorio in ginocchio la sua dignità, il quieto vivere, il piacere di essere una comunità attiva e partecipe.
Naturalmente, il modello cui faccio riferimento è quello della Lombardia di Maria Teresa, dei ‘Trasformati’, dei ‘Pugni’, di Parini e di Cesare Beccaria: un sistema in cui gli intellettuali si facevano portavoce di istanze e necessità popolari e le portavano, proprio nelle Accademie, all’attenzione della classe dirigente.
La quale classe dirigente, da parte sua, collaborava con zelo e capacità alla politica imperiale. Mai come in quel periodo, io credo, Stato e Cittadinanza agirono maggiormente di concerto tra loro e, probabilmente, mai come allora i lombardi si sentirono ben governati.
Ora, io so che parlare ai Trentini di felici rapporti tra impero d’Austria e popolazione sia materia largamente divisiva: non è, infatti, questo il vero argomento del mio articoletto.
Io vorrei suggerire una riflessione su come la ripartenza, la rinascita di quei valori che, credo, accomunino tutte le persone di cuore e d’intelletto, che ancora esistono dalle nostre parti, potrebbe partire proprio da un sistema simile a quello delle Accademie settecentesche: luoghi d’incontro e di dialogo tra le diverse categorie sociali e culturali, il cui scopo sia quello, almeno all’inizio, di studiare e rivalutare il patrimonio della tradizione e dell’identità territoriale, per passare, poi, ad obbiettivi più alti e generali.
Insomma, detto proprio alla brusca, anche un’Accademia del Canederlo (o “dal canedarlo”, per dirla alla rendenese) può diventare un’opportunità importante. Tante piccole realtà identitarie, che, insieme, formino un’identità più grande e più forte.
Perché, come mi sembra chiaro, dalla politica calata dall’alto non possiamo più aspettarci nulla: tocca a noi costruire un nuovo castello, partendo dalle fondamenta.
Marco Cimmino