Le chiusure degli account del Presidente degli Stati Uniti uscente, Donald Trump, disposte nei giorni scorsi da Twitter e da Facebook, sono di una gravitàinaudita, anche se utili a svelare il vero volto ideologico dei padroni della Rete, aspetto su cui si tende a non riflettere abbastanza. A tal proposito, dato che proprio così, Padroni della Rete, si chiama un capitolo del mio libro, Propagande (La Vela)uscito nell’aprile 2019, ritengo possa essere utile riproporlo qui integralmente:
«E Internet? Fino a questo momento si sono presi in esame esempi di propaganda veicolati principalmente da stampa e televisione: ma la Rete? E’ neutrale oppure anch’essa funge da strumento di manipolazione interessata? A prima vista simili dubbi sembrano non avere alcuna ragion d’essere dal momento che l’internauta, per definizione, è colui che naviga tra svago e informazione senza vincoli, libero da condizionamenti di sorta e con la possibilità di costanti e pluralistici aggiornamenti. Come spesso capita, però, le apparenze ingannano dal momento che anche lo sconfinato web ha i suoi manovratori. Per capire chi siano e come operano, occorre partire da un fatto. Anzi, da uno scandalo: quello di Cambridge Analytica.
Si tratta di una società fondata nel 2013 dal miliardario Robert Mercer, e specializzata nel raccogliere dai social network da un’enorme quantità di dati sui loro utenti. Il caso scoppia quando, nel marzo 2018, un’inchiesta congiunta di Guardian, Observer e New York Times rivela che la società di analisi di dati ha violato 50 milioni di profili Facebook allo scopo di sfruttarne i contenuti con fini politici e commerciali. Con lo scandalo, emergono anche delle responsabilità da parte del social newtork più popolare del pianete, Facebook appunto, i cui vertici ammettono di aver commesso degli errori. Al punto che il creatore della piattaforma, Mark Zuckerberg, a maggio viene convocato in audizione in seno alle commissioni di Senato e Camera degli Stati Uniti.
In quelle occasioni, diversi politici chiedono conto a Zuckerberg di censure sospette che Facebook ha applicato nel corso degli anni, per lo più contraddistinte da un tratto politico comune: quello progressista e anticristiano. Si pensi al blocco inflitto ad un post della Franciscan University di Steubenville, riguardante una laurea in teologia cattolica. «Potresti dirci cosa è stato così scioccante, sensazionale o eccessivamente violento in quella pubblicità da far sì che inizialmente fosse censurata?», è stata, a questo proposito, la domanda di Cathy McMorris Rodgers, deputato dello stato di Washington, alla quale il giovane miliardario ha risposto con un vago: «Sembra che abbiamo commesso un errore», è stata quindi la replica di Zuckerberg.
Una risposta che non deve aver convinto dal momento che, nelle due giornate di audizioni, sono stati diversi i politici confrontatisi col re dei social network proprio sull’orientamento ideologico della sua compagnia. A stuzzicare il Ceo di Facebook con una certa insistenza è stato in particolare Ted Cruz, senatore repubblicano che gli ha chiesto esplicitamente conto delle numerose pagine cattoliche e conservatrici sovente incorse in blocchi. A far discutere, tempo addietro, era stata soprattutto la sospensione, avvenuta nel luglio 2017, di ben 25 pagine cattoliche in lingua inglese e portoghese, la gran parte delle quali create in Brasile, fra cui una dedicata a papa Francesco. In quella occasione, in effetti, a farne le spese erano stati svariati milioni di utenti.
Basti ricordare che ad essere bloccate, ancorché temporaneamente, sono state le pagine di padre Francis J. Hoffman, affettuosamente conosciuto come «Padre Rocky», uno da 4 milioni di follower, e di Catholic and Proud, che di follower ne ha oltre 6 milioni. All’inizio del 2018, è stato invece un altro gruppo cattolico, Mater Ecclesiae Fund for Vocations, a lamentare criticità e ritardi nell’approvazione di una raccolta fondi durante il periodo natalizio. Ebbene, davanti alle punzecchiature di Cruz, Zuckerberg da un lato ha fatto lo gnorri, dichiarando di non essere a conoscenza della situazioni sottopostegli, dall’altro si è lasciato scappare due dichiarazioni che hanno il sapore dell’ammissione e che la dicono lunga sulla neutralità di Facebook.
La prima si è avuta quando, rispondendo al senatore del Texas, il Ceo Facebook ha sottolineato che la sua compagnia è «situata nella Silicon Valley», dove a dominare, si sa, è il pensiero progressista; quindi ha definito una preoccupazione «giusta», quella di teme il più popolare social del pianeta politicamente non neutro, dichiarandosi tuttavia impegnato a «sradicare»qualsivoglia pregiudizio. Una seconda, sia pure indiretta, ammissione Zuckerberg l’ha poi data – telegraficamente – quando Cruz gli ha chiesto se avesse qualche idea dell’orientamento politico delle circa 20.000 persone che la società impegna nella revisione dei contenuti postati dagli utenti: «No, senatore».
Perché può essere considerata un’ammissione? Perché è semplicemente ridicolo che proprio colui che almeno potenzialmente conosce i segreti miliardi di persone sia all’oscuro delle idee dei propri dipendenti; ragion per cui la sua risposta può essere letta come un eloquentissimo «no comment». Anche per questo un altro politico, Ben Sasse, senatore repubblicano del Nebraska, ha provato a mettere alle strette il re dei social, chiedendogli di definire cosa si dovrebbe intendere per «incitamento all’odio», espressione chiave perché è proprio in nome di essa che, finora, non poche pagine sono state segnalate e bloccate.
Ebbene, ancora una volta il fondatore di Facebook se l’è cavata recitando la parte del finto tonto: «Penso che questa sia una domanda davvero difficile». Il senatore Sasse ha allora voluto interpellarlo più esplicitamente a proposito delle «opinioni appassionate sulla questione dell’aborto», domandando se ritenga auspicabile un mondo in cui ai pro life sia impedito di esprimere la loro opinione. «Certamente vorrei che non fosse così», ha risposto Zuckerberg, che aveva già auspicato che la sua rimanga «una piattaforma per tutte le idee».
Rassicurazioni, queste, che al pari delle altre non debbono esser parse molto credibili. Di certo non hanno convinto gli attivisti cattolici, a giudicare da quanto si legge sui loro siti Internet. «Facebook odia i cattolici?» si è per esempio ora Catholic League. «Le risposte di Zuckerberg, più che soddisfare delle domande, ne hanno originate di nuove», è invece il commento di CatholicVote. In effetti, i molti «non so», «non ricordo», «dobbiamo aver commesso un errore» del Ceo di Facebook non sono esattamente rassicuranti. Tanto è vero che i blocchi sospetti di certo post non si sono certo arrestati dopo le audizioni al Congresso di Zuckerberg.
Lo può testimoniare l’associazione statunitense pro life Susan B. Anthony Listche, nel novembre 2018, ha denunciato l’ingiusta censura appunto di Facebook ai danni di due pubblicità di 30 secondi inneggianti alla vita. Siamo alle solite, insomma. Ma non c’è da stupirsi dal momento che le posizioni politiche del re dei social e di conseguenza della sua piattaforma sono da tempo il segreto di Pulcinella. Basti pensare che Facebook era, pochi anni fa, tra le aziende firmatarie di un documento che, affinché fossero riconosciute le coppie gay, chiedeva alla Corte Suprema di dichiarare incostituzionale il Defense of Marriage Act. Oppure si considerino i tanti i casi di utenti che negli anni hanno segnalato a Facebook pagine esplicitamente anticristiane o blasfeme sentendosi rispondere che esse «non violano gli standard della comunità».
Se tre indizi fanno una prova, come sosteneva Agatha Christie, non si può dunque che concludere come le numerose (non) risposte di Zuckerbergsull’orientamento ideologico della sua società in realtà – tutte assieme – una risposta la diano. Fin troppo chiara. Il punto è che non ci sono solo i social network ad orientare la Rete in una certa direzione, guarda caso quella di stampo progressista, anziché in un’altra.
Un esempio che si può fare a questo proposito è quello di YouTube, la celebre piattaforma web fondata il 14 febbraio 2005, che consente la condivisione e visualizzazione in rete di video. Ebbene, c’è il sospetto che non soltanto dietro YouTube vi sia il solito orientamento politico, ma anche una posizione di chiaro appoggio alla pratica dell’aborto. Questo, almeno, è quanto sospettano alcuni negli Stati Uniti dopo, alcuni mesi fa, si è verificata la sospensione dalla piattaforma dell’account Abortion pill reversal (Apr), a causa di «violazioni ripetute o gravi delle linee guida della community».
Di quali «gravi» e «ripetute» violazioni Apr si fosse reso responsabile, però, non è risultato affatto chiaro. Infatti l’account altro non faceva che promuovere la conoscenza, per l’appunto, dell’«abortion pill reversal», un trattamento di «inversione della pillola abortiva» attuabile dalla donna che, assunta la prima delle due pillole abortive che di fatto compongono la Ru486, può arrestare la procedura provando, quindi, a salvare il suo bambino.
Con quali probabilità di successo? La soluzione, messa a punto una decina di anni fa da George Delgado e Matthew Harrison, ha una percentuale di riuscita elevata, che oscilla tra il 60 e il 70%. Più precisamente, secondo un recente lavoro pubblicato sulla rivista Issues in Law and Medicine fra i cui autori figura proprio Delgado, l’interruzione dell’aborto chimico tramite il protocollo Apr, oltre ad essere sicura per le donne, presenta un tasso di riuscita del 68%. E, cosa non trascurabile, ha già consentito di venire al mondo a più di 300 bambini diversamente destinati all’aborto.
Eppure, secondo gli addetti alla revisione dei contenuti di YouTube, di tutto questo non si dovrebbe parlare. Di qui la disposta censura dell’account Apr, che ha fatto parecchio discutere. Tanto più se si considerano le spiegazioni offerte dalla piattaforma, che ha motivato la propria decisione chiarendo come essa non consenta contenuti che incoraggino o promuovano «atti violenti o pericolosi che» abbiano «un rischio intrinseco di gravi danni fisici o morte». Una sottolineatura, quest’ultima, quanto meno singolare se si pensa, a proposito di «rischio intrinseco di gravi danni fisici o morte», che la Ru486, di cui l’Apr costituisce una possibilità di interruzione, non è affatto esente da rischi anche gravi per la donna.
Basti ricordare come, già anni fa, non sia stata una testata cattolica, bensì l’autorevole e laicissimo New England Journal of Medicine a segnalare, in seguito ad un’apposita ricerca, un rischio di mortalità materna addirittura dieci volte superiore per l’aborto chimico rispetto a quello effettuato mediante il metodo chirurgico nello stesso periodo di gestazione. La sospensione di Apr disposta da YouTube risulta dunque contraddittoria e contraria sia al bene del nascituro sia a quello della donna; oltre ad essere accompagnata da motivazioni, per così dire, di non immediata comprensione.
«È difficile capire perché YouTube consideri il salvataggio dei bambini da una pillola abortiva allo stesso modo dei video sul terrorismo», aveva commentato a questo proposito Jor-El Godsey, presidente dell’associazione pro life Heartbeat International. Sta di fatto che, alcuni giorni dopo quella sospensione, la celebre piattaforma è tornata sui propri passi scusandosi e riattivando l’account Apr, tutt’ora consultabile. Tuttavia questo episodio non ha dissolto ma, al contrario, accresciuto le perplessità di molti sull’effettiva posizione sui temi etici dei padroni della Rete, i quali hanno già, e più volte, dato prova di parzialità ma, soprattutto, di facilità di censura.
Si pensi, per tornare a Facebook, al blocco disposto tempo fa ai danni di una pagina creata per la raccolta fondi per un film sulla vicenda, poco conosciuta e assai controversa, che ha portato alla sentenza Roe contro Wade con la quale, nel 1973, negli Stati Uniti è stato legalizzato l’aborto. «Considerando le fama di Facebook come forum neutrale e aperto per la discussione di questioni importanti, considero questa decisione scandalosa e chiedo a Facebook di cessare e desistere da questa censura», aveva in quella occasione protestato Robert George, intellettuale molto noto negli Usa nonché docente alla Princeton University.
Un ruolo nell’oscuramento delle tesi pro life sembra averlo anche Google, considerando quanto avvenuto nel giugno 2017 col drastico ed improvvisto calo di visibilità – secondo alcuni dovuto ad una manipolazione dei parametri di ricerca – che ha colpito il portale di Operation Rescue, una delle maggiori organizzazioni antiabortiste statunitensi. Twitter è stato invece accusato pubblicamente da Lila Rose, presidente di Live Action, da una parte di ostacolare la diffusione di contenuti pro life e, dall’altra, di agevolare l’abortista Planned Parenthood nella circolazione di messaggi che, alla fine, raggiungono un pubblico enorme. «Penso sia evidente come Twitter stia discriminando le voci pro-life», aveva quindi dichiarato la Rose al Washington Times.
Ora, è sempre possibile che alcuni di questi sospetti e di queste accuse a carico dei padroni della Rete siano parzialmente infondati, e sia dunque esagerato evocare chissà quali scenari distopici e dittatoriali. Tuttavia, e se ne sono ricordati solo alcuni, dei precedenti che lasciano pensare oggettivamente non mancano. La stessa perdurante vaghezza concettuale che soggiace all’espressione «contenuti di odio», a ben vedere, non dovrebbe lasciare poi molto tranquilli.
Proprio quest’ultimo aspetto, in effetti, pare il più inquietante se si pensa a quanto messo in luce da Nick Hopkins, cronista del Guardian venuto in possesso di oltre 100 manuali ad uso interno di Facebook. In breve, Hopkins ha scoperto che spesso i cosiddetti moderatori del social network hanno appena 10 secondi di tempo per decidere se ammettere o meno un determinato contenuto, cosa che da un lato rende pressoché impossibile bloccare video e post violenti e, dall’altro, rende comunque tutto assai arbitrario. Il rischio che la Rete diventi veicolo di propagande non è dunque affatto marginale. Siamo avvertiti».