«Credo che la cosa più viva che resta di d’Annunzio
sia quella preoccupazione del bello che ha .dato agli italiani».
(Arturo Carlo Jemolo)
Un amante della Letteratura può amare davvero un solo autore perché, alla fine, la letteratura è come il matrimonio: necessita della fedeltà, della capacità di donarsi totalmente solamente ad una persona. Certo, ci possono essere affinità con altri autori o “scappatelle” letterarie, ma ci sarà sempre quel particolare autore lì ad aspettarti, a chiederti di comprenderlo in profondità. Forse, però, come direbbe d’Annunzio, bisognerebbe essere infedeli per amore, almeno in letteratura. Se vi propongo queste riflessioni sulla letteratura è semplicemente per dirvi che sento che d’Annunzio è sempre lì ad aspettarmi.
Oltre i centocinquant’anni dalla nascita del Vate, non penso si debba commemorarlo.
Si commemorano i morti, ma d’Annunzio – non prendetemi per pazzo – gode ancora di ottima salute. La prima volta che lessi le Odi di Orazio, rimasi colpito da un verso: «non omnis moriar», non morirò interamente. Il poeta latino era convinto di aver eretto un monumento più robusto del ferro – ovvero la sua opera poetica – che sarebbe rimasto nei secoli. Penso che d’Annunzio goda della medesima fortuna, alla quale bisogna aggiungere anche il fatto che il Vate non fu solamente un poeta, ma riuscì a diventare qualsiasi cosa volle essere: «io non sono e non voglio essere un poeta mero. Tutte le manifestazioni dell’intelligenza mi attraggono ugualmente». Fu poeta e fu soldato. Amò tutto perché amante della Bellezza. Fu inventore di parole e abile arredatore (passeggiando per il Vittoriale si rimani folgorati dalla “precisione caotica” degli arredi e degli oggetti).
D’Annunzio non solo è riuscito a guadagnarsi un posto tra i grandi della letteratura, ma è anche riuscito a scolpire il suo profilo sul volto delle città italiane. Pensate a Roma, la sua Roma “sensuale”. La Roma di Andrea Sperelli, che altro non è che la Roma di fine Ottocento, dipinta in tutte le sue sfumature. O a Venezia. A quanto d’Annunzio soffrì per la caduta del campanile di san Marco: «da iersera non riesco a vincere la pena che mi riempie di lacrime gli occhi. E vado per le stanze affannosamente come uno spirito smarrito. Una delle più profonde armonie composte in terra dall’Arte e dal Tempo è irreparabilmente distrutta! Chi mi consolerà? […] E nei giornali taluno osa rallegrarsi che non ci sieno vittime umane! Innumerevoli vittime umane non basterebbero all’espiazione». Pensate ora alla Rinascente di Milano, chiamata così da d’Annunzio dopo l’incendio del 1917. Pensate anche ai biscotti Saiwa, che devono il loro nome a Gabriele.
Il Vate è vivo e, da buon dandy, sa quando è il momento di uscire di scena, per spiare la reazione degli altri. Provate a passeggiare per Venezia. A novembre, quando i turisti sono assenti e la città torna autentica. Vedrete, davanti al campanile di san Marco, un uomo calvo, ormai stanco ma sempre vivo, che vi sorriderà col suo pizzetto ben curato. Non spaventatevi: è Gabriele, e sta pensando ad una nuova impresa.
Matteo Carnieletto