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Ambiente Attualità Cultura Un bergamasco in Rendena

Ma questa guerra l’abbiamo vinta o l’abbiamo persa?

Sono tornato a Pinzolo. Era da agosto dell’anno scorso che non ci venivo: sette mesi sono un periodo abbastanza lungo da percepire i cambiamenti, anche quando si tratti di luoghi e non solo di persone. Per me, Pinzolo ha sempre significato cose positive: serenità, salute, sport, allegria. Tutte cose che, nel mio esilio dorato bergamasco, mi paiono sempre lontane, come una fata morgana tremolante all’orizzonte: insomma, nella mia esistenza divisa in due, la val Rendena mi appare come la mia vera casa, mentre la città dove sono nato e cresciuto, da un po’ di tempo mi sembra estranea.

Soprattutto da quando Bergamo è diventata il simbolo farlocco del covid: la città martire, celebrata da telegiornali e editorialisti. Perché, oggi, Bergamo è una città piagata e piegata: una città spaventata. Ci sono riusciti: quel che non erano riuscite a fare due guerre mondiali l’hanno fatto il bombardamento televisivo, la fallimentare visione della salute pubblica, le scelte scellerate nella gestione dell’emergenza.

Così, i Bergamaschi, che sono gente difficile ad abbandonarsi al fatalismo e al timore, sembrano aver perso quella loro formidabile energia che ne ha fatto, nei secoli, una stirpe laboriosa e tenace, coraggiosa e fedele. Sono tornato a Pinzolo, dicevo, e per la prima volta, mi è sembrato di essere rimasto a Bergamo: nonostante i danni, infinitamente minori, fatti dalla pandemia, in termini di vittime e di contagi, ho trovato la stessa atmosfera, come di una comunità attonita. Chiusi i bar, i ristoranti, gli alberghi: smontati gli ovetti della funivia, i piloni che salgono al Prà sembrano uccelli spennati.

Perfino l’acqua delle fontanelle del parco pineta non buttano e paiono anche loro desertificate. Qualche raro bambino sta lì, con la sua biciclettina, ma non si azzarda a giocare. Il nuovo laghetto è vuoto e mostra il suo fondo polveroso. La gelateria apre esclusivamente al pomeriggio e, dopo le diciotto, offre solo coppette: i coni, evidentemente, sono ritenuti pericolosi per il contagio. Hanno tolto le panchine in centro: i rarissimi turisti si siedono sul bordo delle fioriere. Ogni attività sembra sospesa: solo un trattore, oltre Sarca, raschia i campi con una rete da letto appesantita da un copertone.

E io mi domando cosa sia successo: come abbiamo potuto smettere di vivere? Era davvero necessario trasformare l’Italia nella terra dei morti di Lamartine?

Intendiamoci: la gente bergamasca, la gente rendenese non mollerà, questo lo so benissimo. Quando finirà questo incubo, amplificato da servizi televisivi terrorizzanti, da profezie di sciagurati profeti, risolleveranno la testa: e tutto ripartirà, come prima, meglio di prima.

Ma, oggi, vedere Pinzolo così mi ha angustiato: mi ha fatto pensare ai tanti amici, albergatori, ristoratori, maestri di sci, che hanno dovuto restare come sospesi, ibernati, in attesa di tempi migliori.

E, veramente, il pensiero dominante è: c’era proprio bisogno di arrivare a questo? Torneranno i prati, come dopo ogni guerra: ma questa guerra l’abbiamo vinta o l’abbiamo persa?

Eppure, la Pala dei Mughi che occhieggiava dietro il Doss era bellissima, come sempre.

Marco Cimmino