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Attualità Cultura Politica Un bergamasco in Rendena

La psicosi da imbavagliamento persiste

Da oggi, siamo liberi! Oddio, non è che ieri fossimo in prigione e che, da stamattina, possiamo fare quel che ci pare: semplicemente, è decaduta la prescrizione, per molti paradossale, se non addirittura dannosa, di indossare la mascherina all’aperto.

La mascherina: questo oggetto che, oggi, ci pare indispensabile, tanto che qualcuno, addirittura, si sente orfano senza portarla, e che, ieri, quasi neppure si sapeva che esistesse. Tanto che nei telefilm ambientati in ospedale, non le portavano neppure i chirurghi: provate voi a distinguere George Clooney da Giorgio Chiellini, con su una mascherina! Vogliamo parlarne, di questa mascherina, nella sua evoluzione, tanto tecnica quanto epistemologica?

In principio vi fu il dibattito su quale modello meglio si adattasse alle esigenze del morbo: tessuto, carta, con valvola, senza valvola, unidirezionale, bidirezionale. Vi ricordate? I soliti, oggi sputtanatissimi  e pressoché ignorati, virologi da teleschermo ne hanno dette di ogni su questa benedetta mascherina: serve, non serve, così sì e cosà no e via discorrendo. Alla fine, la più introvabile e, ovviamente, la più costosa sarebbe stata la FFPP2, ovvero la Filtering Facepieces2: nata, in realtà, come mascherina antipolvere: ma non stiamo tanto a sottilizzare.

E tutti a procurarsi questa pezza, pressoché inutile a fermare un virus, ma tanto rassicurante sul versante psicopatologico. Naturalmente, all’inizio non ce n’era traccia, neppure a pagarla a peso d’oro: poi, ne sono arrivati svariati milioni, procurati dall’ineffabile Arcuri (di cui si sono perse le tracce). Solo che erano taroccate e le abbiamo dovute buttare. Si è ripiegato sulla classica mascherina chirurgica in tessuto-non tessuto. La scuola, che è sempre due passi avanti a tutti, ha distribuito a milionate, invece, delle bizzarre mascherine di carta, con laccetti pure in carta, della cui resistenza alla trazione potete stare certi: non si conosce il nome del furbacchione che ha partorito questa bella trovata, ma probabilmente è alle Maldive a godersi i proventi del suo colpo di genio.

Così, più o meno, l’Italia si è adeguata alla bisogna: ci siamo adattati, ci siamo abituati a girare per strada conciati come dei Barabba e mascherati come Fra’Diavolo. Passeranno anni o decenni, prima che ci dicano che tutta questa carnevalata non serviva a una beata sega: qui da noi, le cose funzionano così. Intanto, Arcuri la passerà liscia. Sia come sia, in val Rendena si è deciso di bruciare le tappe. Da sempre, la mascherina aveva attecchito poco, dalle nostre parti: quando a Milano sembrava di essere in un film di fantascienza, a Pinzolo, al massimo sembrava di essere in un film dei fratelli Vanzina.

Ultimamente, poi, c’è stata una specie di conventio ad ignorandum, riguardo all’uso del prezioso strumento protettivo. Qualche giorno fa, ero a farmi la solita birretta del dopotennis, in una ridente località, limitrofa al celebre centro turistico: sulla vetrata del bar campeggiava la scritta che imponeva l’uso della mascherina. Sono arrivati due agenti della polizia locale e sono entrati, non filandosi nemmeno di striscio il perentorio avviso. Hanno consumato, sono usciti e i nostri sguardi si sono incrociati.

Magari, avranno pensato che fossi un talebano del mascheramento e che stessi per montar loro una mella infinita sulle regole, il buon esempio e via delirando. Poi, hanno visto la mia tenuta da tennista e il mio sorriso disteso e complice e sono andati via con un cenno d’intesa e di saluto.

“E’ uno normale!” devono aver pensato. Ecco, questa è la morale del mio pistolotto: siate normali.

O, meglio: tornate a essere normali.

Marco Cimmino