Home » C’è un limite a tutto ma questo è il nostro governo
Attualità Cultura Un bergamasco in Rendena

C’è un limite a tutto ma questo è il nostro governo

A tutto c’è un limite. In ogni cosa esiste un confine che non si deve superare, pena il disastro. Perfino un asino, dopo cento bastonate, alla centunesima, springa e scalcia. Perfino un popolo bolso e infingardito come il nostro non può essere insultato oltre una certa misura. E la misura, a mio parere, è stata raggiunta venerdì scorso.

Può essere che io sia, per mestiere e per carattere, particolarmente sensibile a questioni in cui si tratti di Patria, di caduti, di memoria storica e di identità: fatto si è che, venerdì, ho avuto la percezione definitiva del fatto che, ai vertici di questo Paese, ci sia un’accozzaglia di disfattisti, menefreghisti, giullari e fannulloni.

Come credo sappiate, ricorre, il 4 novembre di quest’anno, il centenario della tumulazione del Milite Ignoto nell’Altare della patria, proprio sotto la statua della Dea Roma. Cento anni fa, il treno speciale, partito da Aquileia, ha percorso l’Italia, tra due ali di folla: portava un caduto sconosciuto, che era il figlio, il fratello, il marito di tutta una Nazione. La nostra Nazione. Era il simbolo di un colossale lutto collettivo e riceveva l’abbraccio di tutta l’Italia, finalmente e per una volta unita.

Cento anni dopo, qualche funzionario ignorante e svogliato della Presidenza del Consiglio (anzi, scusate: della presidenza del consiglio, minuscolo), per dovere d’ufficio, ha prodotto una locandina dedicata al Milite Ignoto, con tutti i crismi, i loghi e le cartebolle del caso. Questo bradimorfo ingiudicabile, ha messo in rete una locandina così concepita: in primo piano una bella foto di soldati statunitensi durante la guerra di Corea e, sullo sfondo, una cartina in filigrana di Cartagena, Colombia, America del Sud. Capito bene? La locandina della Presidenza del Consiglio, in occasione del centenario del Milite Ignoto, raffigurava dei soldati USA, sullo sfondo di una carta della Colombia.

Qualcuno dei colleghi dell’analfabeta in questione, magari meno ignorante o, semplicemente, meno addormentato, se ne deve essere accorto subito, e il volantino incriminato è prontamente sparito dalla rete. Non prima, però, che qualcuno lo scaricasse e che esplodesse un fuoco d’artificio di commenti sdegnati e di insulti: insomma, la frittata era fatta, nonostante il tentativo di metterci una pezza. Tentativo subdolo, tra l’altro: cancellare le tracce avrebbe voluto poter dire che si trattava di una fake e zittire le critiche. Ormai, le fake news superano in numero le notizie vere, su internet, perciò il giochetto avrebbe potuto funzionare.

Perfino io, che credo di aver qualche competenza in materia, ho respirato di sollievo: è una fake, mi sono detto, meno male! Perché, in effetti, la cazzata era talmente colossale da indurre a credere che nessuno possa essere così supremamente somaro, così incredibilmente superficiale. E massime a Palazzo Chigi e dintorni.

Invece, la notizia era vera, purtroppo. Non solo, ma, per metterci una pezza, la stessa Presidenza del Consiglio ha emanato un comunicato in cui si domanda scusa dello svarione, dovuto, secondo l’esilarante velina governativa, allo stato di stress da superlavoro degli uffici addetti alle onoranze e alle celebrazioni. Immaginatevi il funzionario romano che, stressatissimo, tra una pausa caffè e quattro chiacchiere con i colleghi sul campionato, butta giù la locandina: a Romolè, con quante g se scrive “ignoto”? Senza contare che nella velina sono riusciti a infilare ancora un paio di errori d’ortografia, mercè lo stress imperante negli uffici capitolini. Insomma, xe pezo el tacòn del buso.

E questo è il nostro governo: questi coloro ai quali è demandato il futuro di questo povero Paese. Uno qualsiasi dei reduci della Grande Guerra, avrebbe cacciato impiegati, segretarie e manutengoli vari a calci nel preterito. Il manifesto del cinquantenario, nel 1968, recitava: non dimenticateci! Oggi, io dico che è meglio dimenticarli, quei poveri morti cari, che insultarli.

Questa non è più la mia Patria.

Marco Cimmino