Sono ormai imminenti le elezioni del Presidente della Repubblica, che vedranno coinvolti i 1009 Grandi Elettori dei vari schieramenti politici che prenderanno parte all’elezione indiretta della più alta carica dello Stato. Già solo questo preambolo dovrebbe far capire la scarsa democraticità di queste elezioni, ma non è il tema in oggetto.
Facendo un po’ di politologia spicciola, si può dire – si sente dire sempre più spesso, in realtà – che il centrodestra in queste elezioni ha il ruolo di king maker: cosa vuol dire? Che la delegazione dei vari partiti costituisce il gruppo numericamente superiore in Parlamento e che, volenti o nolenti, tutti dovranno fare i conti col centrodestra per eleggere il Presidente, visto che i loro voti sono imprescindibili.
Da un conteggio rapido questa analisi è anche vera: i delegati del Centrodestra sono 452, di cui 210 della Lega, 133 di Forza Italia, 63 di Fratelli d’Italia, 31 di Coraggio Italia, 5 dell’Unione di Centro, 3 di Noi con l’Italia, 2 del Partito Sardo d’Azione (federato nella Lega alle politiche del 2018 in un’alleanza confermata anche in Regione per portare Solinas alla Presidenza), Nello Musumeci per #DiventeràBellissima e altri 4 dai vari gruppi misti. Una delegazione non di poco conto, considerando che la maggioranza dal quarto scrutinio scende a 505. Mancano, per cui, 53 voti al centrodestra per eleggere il Presidente della Repubblica.
Eppure. Innanzitutto, il centrodestra ha annunciato pubblicamente di sostenere Silvio Berlusconi per la campagna del Quirinale, dicendo di aspettare che il Cavaliere sciolga la riserva. Riserva che non sta venendo sciolta, perché sembra che quei 53 voti in più non si trovino con il suo nome. Motivo per cui Matteo Salvini è ripartito alla carica, cercando intese con Renzi e con il Movimento 5 Stelle per arrivare al numero magico. Anche la Meloni si sta pian piano smarcando da Berlusconi, anche se nelle ultime dichiarazioni sembrerebbe che si aspetti comunque un’eventuale resa di Berlusconi.
L’ansia per la bandiera bianca del leader di Forza Italia manifesta più di un problema interno alla coalizione: se fosse stato il vero candidato, tutti si sarebbero mossi per cercare i voti sufficienti, invece di procedere a immaginare piani B e C. Inoltre, nel momento in cui Berlusconi dovesse decidere di proseguire si andrebbe indubbiamente a un ko tecnico del Centrodestra, con Lega e FdI impegnati a votare un candidato al quale mancherebbero i 133 voti di FI. Se proprio si aveva così tanta paura delle concrete possibilità avute da Berlusconi, il Centrodestra avrebbe dovuto non dichiarare il nome ma dire di avere una personalità importante interna al proprio campo d’azione. Così poi, in assenza di numeri, non ci si sarebbe giocati la faccia e si sarebbe potuta avanzare una nuova candidatura.
Invece sembra quasi che il sogno più recondito dei leader del centrodestra sia sostanzialmente quello di ammazzarsi vicendevolmente: Salvini vuole far fuori Berlusconi per accaparrarsi quei voti che confermerebbero lo spostamento verso il centro della Lega, la Meloni vuole far fuori Salvini per diventare definitivamente la leader del Centrodestra, Berlusconi vuole dimostrare di essere ancora lui il “capo” e di saper giocare meglio degli altri le sue carte.
Ecco allora che la narrazione del centrodestra king maker cessa di esistere, perché è molto probabile che alla fine ogni partito vada a convergere su altre candidature, lasciando il campo – ancora una volta – alla sinistra o a Renzi, che rischia (lui sì) di essere di nuovo l’artefice dell’elezione del Presidente, dopo aver vinto la partita del 2015 con Mattarella.
A meno che il centrodestra non riesca, compattamente e scendendo a patti veramente con chiunque, a eleggere Berlusconi, la coalizione stessa di Centrodestra è morta. Nemmeno un passo indietro dello stesso forzista basterebbe a salvarla, perché sarebbe a tutti gli effetti una resa, la dimostrazione dell’incapacità di tutti i partiti di muoversi all’interno delle dinamiche di Palazzo, dove non contano i voti ma l’intelligenza politica. Quella che poteva – e doveva – essere una cavalcata trionfale rischia concretamente di diventare una Waterloo, indicando magari Draghi insieme al centrosinistra nella vana speranza di tornare al voto.
Incomprensibile, quindi, come una coalizione decida di andare così allegramente incontro al suicidio, bruciando il volto storico e il fondatore della stessa area politica, inesistente fino alla sua discesa in campo e faticosamente costruita intorno ai principi conservatori, federalisti, nazionali e liberali. Non andrebbe dimenticato che i progenitori di quei partiti che oggi rappresentano il Centrodestra (MSI-Lega-PLI) nel 1992 non arrivavano al 18% dei consensi, oggi potrebbero eleggere un proprio nome al Quirinale. Un nome che sarebbe potuto essere letteralmente quello di chiunque: della Casellati per rimanere nei volti istituzionali odierni, di Pera per rispolverare il passato, di Tremonti per un asse economico con Draghi (che si ricorda essere diventato Governatore della Banca d’Italia su indicazione del Governo Berlusconi III con Giulio Tremonti Ministro dell’Economia), di Marcello Veneziani se si fosse voluto dare un taglio intellettuale, persino dello stesso Berlusconi. Ma per farlo sarebbe servito coraggio: non il partito, ma piuttosto la volontà di non piegarsi a qualsiasi diktat del centrosinistra, tanto impegnato a chiedere un “candidato condiviso” da eleggersi Giorgio Napolitano nel 2006 che di divisivo aveva tutto.
Invece no, dietro ai soliti giochetti probabilmente si arriverà alla fine di una storia politica di successo durata 28 anni, con forse sullo sfondo uno scenario desolante: la proposta di un ritorno al proporzionale puro, con tutti i partiti liberi di misurarsi alle urne e poi – in pieno stile primarepubblicano – unirsi per governi di coalizioni che sempre più facilmente rischiano di diventare grandi ammucchiate. L’esito della terza repubblica, alla fine, sarà quello di tornare alla prima. Contenti loro.
Rinaldo De Santis