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I mostri a Firenze – Il delitto D’Aniello

A Firenze c’è un mostro? O forse c’era, c’erano dei mostri; o ancora, per molti esso non è mai esistito, è solo un totem che nasconde dei carmina burana inconfessabili. Abbiamo narrato di questa storia nel nostro libro (“Il mostro di Firenze – John Doe in Toscana, la storia osservata da un passante” Eidon edizioni).

Abbiamo poche fonti a disposizione: qualche articolo e uno speciale su “La Linea d’Ombra”, oltre a uno spazio dedicato dal programma “Il terzo Indizio”. Il resto, è da frugare con le unghie, dopo aver scoperto le consuete dissonanze (a iniziare dall’anno, che viene indicato talvolta come 2002, talaltra nel 2003).

L’8 novembre 2003, sabato, in una bella abitazione del centro storico fiorentino, il farmacista (titolare, non dipendente) Paolo Botteri sta tornando a casa, con le figlie che è andato a prendere a scuola (o con una sola, le cronache iniziano già qui a dividersi). Quando l’uomo arriva, aperto l’uscio, trova sua moglie, la bella Rossana D’Aniello, 46 anni, funzionaria di banca, riversa sul pavimento della camera da letto, in un’ordalia di sangue che ricopre i pavimenti, è schizzato sulle pareti, in ogni stanza.

La ferocia e la violenza del crimine, uniti al fatto che il corpo della poveretta è stato trascinato in camera da letto, fanno pensare ovviamente a una mano maschile: la testa di Rossana appare quasi staccata dal tronco. Si occupa in prima persona del caso il pubblico ministero Piero Suchan, parente della vittima (fonte Vincenzo Cerami, Corriere.it, 17 febbraio 2008).

In pochi giorni, tutto è bell’e ricostruito: non si tratta di un killer maschio. La fosca e torva impiegata del comune Daniela Cecchin, classe 1956, aspetto androgino e respingente, confessa l’omicidio, e fornisce anche il movente: l’invidia. Da ragazza, frustrata e derisa a scuola e all’Università, al primo anno della facoltà di chimica farmaceutica aveva conosciuto Botteri, unico coetaneo gentile con lei, e non l’aveva mai dimenticato. Qualche tempo prima del delitto l’aveva casualmente rivisto ma, senza avvicinarlo, aveva preso a pedinarlo, sorprendendolo in atteggiamenti spensierati e un evidente affiatamento con la moglie: colta da irrefrenabile pulsione distruttiva, identificando nella “rivale” la proiezione di ciò che non era riuscita a diventare lei, la Cecchin aveva escogitato un piano per ucciderla.

Narrano i resoconti, quasi a fotocopia, che durante la perquisizione della casa dove l’assassina viveva sola, in via Dogali, primariamente si notava l’ordine maniacale; erano stati trovati dischi di musica classica ma pure di heavy metal, testi sacri, fumetti per bambini e la cassetta del film “Psyco” di Alfred Hitchcock. Non mancavano appunti, tratti da un libro noir, con un abbozzo di pianificazione delittuosa mediante coltello.

Ci fanno sapere che Daniela sparava al poligono, era cattolica integralista, frequentava solo la chiesa, non aveva amici. Un collega dell’Ufficio di igiene racconterà che si era sprecata a chiacchierare un poco di più solo in occasione della tragedia dell’11 settembre 2001. Veniamo a sapere che la donna era ricorsa alla chirurgia estetica per ingrandire i seni e far sbalzare i capezzoli: per chi e perché non si sa, forse per guardarsi allo specchio, visto che la si da per vergine?

La difesa punta subito sull’infermità mentale e l’esclusione della premeditazione, preferendo la teoria del raptus. Le peripezie giudiziarie, qui, poco ci interessano. Tra rito abbreviato e riconoscimento della seminfermità, nel 2017 la condanna era quasi scaduta, ma i parenti della D’Aniello hanno protestato e non si sa bene come sia finita, ad oggi.

Analisi di un delitto: non torna mai nulla

La biografia della misconosciuta omicida è sconcertante. Per cominciare siamo abituati a uomini, più che a donne, quando si tratta di crimini efferati, sanguinolenti e maniacali, e a storie di maltrattamenti familiari, abusi nell’infanzia, traumi di una qualche natura. Se esistessero, nella vita di questa donna, problematiche derivate dall’esterno del suo essere, nessuno lo ha detto o forse nemmeno approfondito. Viene regolarmente descritta come storta di suo.

Nata a Montebello Vicentino, da “famiglia benestante”, ultima di tre figli, Daniela (che avrebbe definito suo padre “un perdente”) si sposta con il nucleo familiare brevemente a Verona, poi definitamente a Firenze, frequenta le scuole senza problemi, fino al liceo classico “Michelangelo”; ma all’università si “intoppa”, non passa un esame e molla dopo il primo anno, quel fatidico periodo in cui il Botteri l’avrebbe affascinata senza speranza. La farmacista mancata resta in ambito sanitario, tenta l’esame da infermiera, ma non supera nemmeno quello.

La ragazza soffre di anoressia e bulimia, si ritiene perseguitata dai coetanei per la sua religiosità, in un mondo laico di cui non condivide le contestazioni, assume psicofarmaci, va in terapia due anni, senza apprezzabili risultati. Non sappiamo alcunché dei suoi rapporti con i parenti, di frequentazioni, socialità: a quanto pare si divideva tra la chiesa (ma senza relazioni parrocchiane), incursioni ai poligoni per allenarsi e solitari giri in bicicletta. Possibile che costei sia riuscita per anni a vivere come una Dinamite Bla perennemente ringhiosa? Non esiste qualcuno in grado di riempire i vuoti di questo orrido racconto, un medico di famiglia, un sacerdote, un vicino di casa?

Nel 1987 la ritroviamo, d’un balzo (le narrazioni saltano interi periodi) impiegata a Vicenza, centralinista in un’azienda per telesoccorso per anziani ma, causa la sua scarsa comunicatività, viene spostata in archivio e la prende male: molesta telefonicamente i colleghi, a suo parere insolenti e ingrati, urla da sola nei bagni, ruba documenti sotto l’occhio della telecamera, avrebbe dato fuoco al giardino di un tale di cui si era invaghita, rischiando di sterminarne la famiglia, resta impunita, ma viene licenziata; dulcis in fundo,  stalkerizza perfino il chirurgo che le ha gonfiato le tette e gli distrugge la porta dello studio. Altre voci, di converso, parlano di un’impiegata “scrupolosa”, esperta di informatica (competenza che però non esercita su di un qualche computer casalingo, che non viene mai nominato). La accusano di aver alterato i cartellini. Le viene ritirato il porto d’armi.

A un certo punto Daniela ritorna a Firenze, ma sull’anno le versioni cambiano: si parla di 1997, 2000, 2001. Nonostante i suoi inquietanti pregressi, la signorina viene assunta in una pubblica amministrazione, il comune appunto. Ammettiamo che non si selezioni molto un personale screditato dai media, come quello dello stato e degli enti locali, ma questa ne aveva combinate di ogni. Chi l’ha fatta assumere? Ovviamente si fa conoscere anche sull’Arno, anzi già dovevano saperne qualcosa, visto che Firenze è di fatto la sua città d’adozione e i casellari penali erano centralizzati da un pezzo, sta di fatto che continua a comportarsi in modo anomalo.

Come si è arrivati a catturarla

Le indagini della squadra mobile, affiancata dalla polizia scientifica, rilevano una grande confusione, nel signorile appartamento. Chi ha ucciso, se la sarebbe presa comoda, a dispetto del dogma di Cesare Beccaria, secondo il quale il lestofante resta sul luogo del misfatto solo il tempo necessario ad eseguirlo: dopo aver spostato il cadavere, feritasi, Daniela si sarebbe tamponata il sangue con una gran quantità di carta igienica e fazzolettini, lavata in bagno, per poi cambiarsi d’abito, lasciando lì i propri vestiti e prendendo a prestito un giaccone di Botteri. Quest’ultimo, dal canto suo, ricorda un certo numero di telefonate anonime, con rantolo ansimante, nel cuore della notte, distribuite nell’arco di mesi fino a poco prima del dramma.

Si controllano i tabulati, scoprendo che le chiamate provenivano da cabine e risalendo alla scheda utilizzata. Poiché con la stessa scheda è partita una chiamata verso la madre della Cecchin, i poliziotti si appostano e voilà: la rimbambita killer si sarebbe ripresentata al suo call center preferito, per ricominciare a disturbare la sua prossima vittima, che aveva già adocchiato, dunque si è riusciti a fermare una serial killer.

In questura la donna è costretta a levarsi i guanti, che sempre porta (non quelli usati per uccidere, immaginiamo), evidenziando ferite alle mani, e a disvelare il contenuto della borsetta (no cellulare, niente denaro), ove giace un coltello di marca francese, compatibile con quello che ha quasi decapitato Rossana. La Cecchin si giustificherà asserendo che lo portava per suicidarsi in caso di cattura e aggiunge che per lei è “finito un incubo”, che quel giorno le era scattato un “furore” dentro ed era stato “il diavolo”.

Come era riuscita a entrare in casa senza effrazioni? Ingegnoso: aveva stampato un finto logo del sindacato farmacisti, piazzandolo su una scatola e fingendo la consegna del collo. L’ignara e rilassata Rossana, ancora in vestaglia nella tranquillità di un sabato di riposo, aveva vinto le proprie reticenze nell’aprire a sconosciuti: quando la Cecchin aveva finto di non aver una penna per firmare la falsa ricevuta e la bancaria si era voltata per cercarne una, era scattato l’attacco. La Cecchin ha lasciato in casa, oltre i propri abiti sporchi (ma non si sono accorti subito che erano da donna?), anche il pacchetto; avrebbe agito con i guanti, ma se si è asciugata dalle sue stesse copiose perdite ematiche, vuol dire che se li è tolti, giusto? Ecco l’ennesimo soggetto che fa la cosiddetta mattanza ed esce tranquillo senza grondare.

Nel frattempo, le analisi sul DNA dimostrano che quello sulla scena del crimine, mescolato con l’altro della vittima, è il suo. Purtroppo non si poteva fare nulla in precedenza, poiché la criminale era “incensurata” e “non c’era il suo DNA in banca dati”. Siamo spiazzati, perché la Cecchin aveva commesso diversi reati, ma evidentemente era sempre scampata a denunce e azioni giudiziarie nei suoi confronti; e per quella allusione alla banca dati (e qui richiamiamo la nostra premessa), in quanto tale raccolta è stata istituita nel 2009, in Italia, e nel 2003 nulla si sarebbe potuto riscontrare: o no?

Eminenti psichiatri schematizzano per noi un profilo comportamentale che però, questa è l’impressione, scappa da tutte le parti. Si accosta la Cecchin a famosi stalker come quelli che attentarono ad alcune star dello spettacolo o che hanno eliminato ex fidanzate, ma non sembrano esserci poi tanti punti di contatto, se non forzando la mano.

Ci si aggrappa ad alcune testimonianze dei vicini dei Botteri/D’Aniello, secondo cui si sarebbe avvertita, al momento del fatto, ossia verso le nove di mattina, una seconda voce di donna arrochita e caricaturale, che chiedeva aiuto quasi con ironia.

Iniziamo col notare che, se effettivamente una telecamera sul posto inquadrava, all’ingresso, una donna con vestiti simili a quelli indossati da Daniela, altri testimoni non fanno collimare le figure, poiché accennavano a persona alta circa un metro e ottanta e nessuno ha mai certificato che l’assassina sia così alta, anzi si descriveva proprio un individuo di sesso maschile. Ma ha confessato, si dirà. Certamente sì. Tuttavia, il doppio riferimento a Hitchcock ci lascia straniti. Tenere una cassetta di Psyco in casa non è così strano, molti amano il “maestro del brivido”, i noir, i gialli. La vocina sovrapposta alla propria è appunto una caratteristica del protagonista di quel film, Norman Bates/Anthony Hopkins, oltre che di “Marnie”, altro film del geniale regista, personaggio questa volta femminile interpretato da Tippi Hedren. E poi: solo quella aveva in casa, o si trattava di una tra tante di diverso genere? C’era anche una collezione di monetine.

La musica heavy è spesso demonizzata, ma l’accostamento a tendenze omicide risulta un po’ stucchevole, tanto più che è un genere legatissimo all’uso di sostanze: Daniela viene spesso disegnata come una farmacodipendente, mai una drogata.

Da parte loro, sembra che i familiari di Daniela, presso cui lei aveva pranzato (articoli oscillanti tra il sabato sera stesso o la domenica seguente) non si fossero accorti di nulla, nemmeno dei tagli alle mani, che nelle foto a noi mostrate non sono roba da poco, e avrebbero confermato un suo comportamento “normale”.

Ci piacerebbe sapere cosa significasse l’aggettivo “normale”, in un individuo del genere. Forse, che era fuor di senno come sempre? Sapevano o no che risma di squilibrata era lei? Avevano letto i giornali? Tutta Firenze sapeva e loro non sospettavano nulla? Pensavano che fosse tornato il mostro? Dopotutto, ancora oggi, anche a voler credere alle sentenze (peraltro squalificate dall’ultima del 2008), almeno tre duplici delitti del serial killer più famoso d’Italia sono rimasti senza colpevole, perché le condanne ai compagni di merende ne hanno incluso solo quattro su sette…

Forse questa oscura presenza spaventava anche i Cecchin genitori, fratelli, eventuali nipoti, al punto di indurli al silenzio purché lei se ne stesse alla larga?

Un reo confesso non si discute mai e l’animo umano resta imperscrutabile, ma stiamo accatastando un po’ troppi assassini che sembrano seminare prove in giro apposta per essere acciuffati. Meglio così, danno una mano e non colpiranno più: però… un senso di disfatta, l’idea che a volte si potrebbe prevenire un crimine, lascia un retrogusto amarissimo nell’anima.

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici