E compreremo un altro esame all’Università… (Vorrei, ma non posto, J – Ax & Fedez).
Episodi di ragazzi che fingono di frequentare l’Università, ma in realtà la disertano e non sanno come spiegarlo ai genitori, si sono registrati con una certa frequenza, in Italia, nell’ultimo ventennio, anche se le opinioni circa numero e motivazioni sono discordi. Può finire tutto senza tragedie, con una franca spiegazione in famiglia, certamente carica di recriminazioni e dolore, ma talvolta si verificano suicidi, tentati e/o riusciti, fughe, morti misteriose, dove il giovane mentitore è vittima; oppure, omicidi a opera dei laureandi mancati, con obiettivo i familiari. Vediamo qualche stralcio dalla cronaca:
“…Si tratta di cause complesse, non è possibile semplificare. In genere c’è un divario tra le aspettative che hanno i genitori, e che i ragazzi hanno fatto proprie, e le difficoltà negli studi che si possono incontrare e che non si riescono a risolvere da soli…” Repubblica Bologna, 9 aprile 2016, articolo di Ilaria Venturi
“…Non si contano più i casi di giovani che, dopo aver finto per anni di superare gli esami, pur di non ammettere l’insuccesso, inscenano persino le discussioni delle tesi con tanto di comparse e sale… Per noi psicoanalisti …il problema è sempre capire il livello del fenomeno: quanto è sostenuto da dinamiche inconsce che non arrivano per niente alla coscienza e quanto invece una parte almeno diventa cosciente e magari scatena un conflitto? Perché l’essere umano è così fatto che magari consciamente è angosciato e prevede la disfatta e invece inconsciamente è soddisfatto, perché sta “disfacendo” la realtà. Poi, nei casi migliori (cioè più curabili) c’è anche il senso di colpa (e appunto anche la vergogna) a tormentare l’individuo. In questi casi anche inconsciamente l’individuo non è riuscito, diciamo nel nostro lessico, a zittire il Super-io». Antonio Alberto Semi, membro ordinario della Società psicoanalitica italiana, per Avvenire, 19 marzo 2017, articolo di Eugenio Giannetta.
“…Silvana 50 anni, era preside della scuola media di Campomorone, un paesino della cintura nord di Genova. La donna è stata uccisa nel suo appartamento, nella periferia del capoluogo. Il figlio ieri pomeriggio ha confessato il delitto, in questura: «Ho ucciso mia madre perché non riuscivo più a reggere la situazione, per le menzogne che le avevo raccontato sulla mia laurea di oggi». Repubblica 23 ottobre 1999.
Per non parlare di uno dei casi di cronaca nera più agghiaccianti che si ricordino in Francia.
“Jean-Claude Romand. “…subito dopo il conseguimento del baccalauréat, Romand si iscrisse alla facoltà di medicina dell’università di Lione[1], dove fallì l’esame di ammissione al secondo anno[4][5]. Da quel momento in poi Romand inizierà a raccontare una serie di bugie ad amici e parenti, arrivando a far credere di essere un medico impiegato come ricercatore all’OMS e ottenendo denaro da prestiti richiesti per ragioni di lavoro o per curarsi da un millantato linfoma…” WIKI – …” Un personaggio che ha sempre vissuto un’altra vita, fingendosi un medico…mentre in realtà passava le sue giornate a girovagare nei dintorni di Prevessin, il paese in cui risiedeva con la famiglia. Ufficialmente lavorava presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, viaggiava spesso, partecipava a convegni internazionali, frequentava personaggi illustri. Un meccanismo perfetto idoneo a creare un altro uomo, un’altra vita…nel 1993 uccise moglie e figli, prima di aver tentato di suicidarsi ma invano…” Lottavo.it, di Giovanni Vittorio, 29 novembre 2019.
Dopo questa breve e incompleta panoramica, entriamo nella vicenda – inerente questo specifico disagio – più clamorosa del terzo millennio, almeno per quanto riguarda il nostro paese. La storia, in un primo momento, passò quasi inosservata. Si era nei primi mesi del 2002 e tutta l’Italia discuteva (e ancora per molto lo farà) sul delitto di Cogne, del gennaio precedente. Per questo, forse, la notizia del duplice omicidio di due stimati coniugi di Roma fece parlare relativamente poco. Per questi delitti è stato condannato il figlio dei due, Aral, a ventotto anni di reclusione. Egli protesta la propria innocenza e ha ottenuto l’interesse di “Progetto innocenti”, che crede alla sua versione. Nonostante la televisione e i media abbiano riportato aggiornamenti periodici sul caso, noi abbiamo trovato, come al solito, sacche oscure mai approfondite.
Il 22 marzo di quell’anno, nell’elegante abitazione romana in zona Villa Bonelli, attico e superattico, furono rinvenuti i corpi di Gaspare Gabriele ed Maria Elena Figuccio, Elena per tutti, rispettivamente 66 e 64 anni. Lei, nata in un quartiere europeo di Casablanca, quando sposò il dottore commercialista Gaspare, aveva già in animo di dare ai figli nomi che le ricordassero l’infanzia in terra d’Africa. Nacquero così Laila e Aral, quest’ultimo venuto al mondo nel 1975.
Mentre la primogenita percorre la strada prevista in un simile contesto, diventa avvocato e sposa un collega livornese con cui si trasferirà a Milano, Aral, a dir poco vezzeggiato e protetto dalla mamma, indugia un poco negli “ozi di Capua” garantiti in famiglia. Dopo il diploma si iscrive a giurisprudenza, e insegue ideali solidaristici: svolge servizio dai obiettore di coscienza e si occupa di ragazzi diversamente abili, mentre, fuori corso, è ufficialmente vicino alla laurea all’università di Camerino. E’ un ragazzo tondeggiante, con lunghi capelli neri, l’aria eterea, descritto come educatissimo, almeno formalmente, mai un tono di voce sopra le righe, appassionato di tennis che pratica presso un circolo.
E’ proprio il giovane a dare l’allarme la mattina di quel venerdì di inizio primavera, pressato, in realtà, dalla sorella, la quale stava tentando inutilmente di parlare al telefono con la mamma dal giorno prima. Abbiamo visto i filmati del sopralluogo degli inquirenti, guidati proprio da Aral, attraverso gli ambienti lindi e impeccabili di un’abitazione borghese, dove c’è un unico elemento stonato: i cadaveri dei genitori in camera da letto, impacchettati dentro sacchi neri della spazzatura, sigillati con nastro adesivo. L’autopsia darà come causa della morte il soffocamento, previo stato di semincoscienza dovuto all’assunzione di alcol e sonnifero. Entrambi sono nudi dalla cintola in su, a parte il reggiseno indossato da lei.
Saltiamo i lunghi discorsi in stile Leosini, sentiti in occasione delle puntate che la giornalista dedicò al caso, ben tre, a riprova dell’interesse della barocca Franca all’abietto delitto e alla figura del protagonista, e veniamo ai punti salienti.
Il superattico comprendeva camera da letto con bagno da una parte, per il solo Aral, e lo studio di Gaspare dall’altra, indipendenti sia tra loro che dal sottostante attico, collegati da una scala a chiocciola. Papà Gabriele, oltre a esercitare l’attività di commercialista, si occupava di compravendita di immobili, soprattutto in Sardegna, che reperiva nelle vendite all’asta. La moglie, dopo aver insegnato storia e filosofia, aveva deciso di dedicarsi solamente alla famiglia.
Aral appare sconvolto nei primi interrogatori e la racconta così: la sua vita si svolgeva in modo autonomo, con la possibilità di entrare e uscire dalla sua zona notte utilizzando la porta esterna del pianerottolo, anche senza passare dall’appartamento dei suoi, che poteva dunque non incontrare per giorni interi. Il 20 marzo, mercoledì, cena con loro (a tavola, minestrone); Elena assume del sonnifero Minias, come sua abitudine, e centellina quello che anche il figlio consuma, contandogli le gocce; i tre si danno la buonanotte e il ragazzo va a coricarsi.
Infastidito dalle zanzare, opta per il divano dello studio paterno, dove riesce più o meno a dormire, appena disturbato dalla musica ad alto volume proveniente dalla strada. L’indomani si reca regolarmente a svolgere il servizio con la sua auto. Torna a casa, per riuscirne presto, a cena con gli amici; lascia un biglietto di avviso sul tavolo, incurante del silenzio in cui già l’abitazione è immersa, perché appunto le vite rispettive erano indipendenti. Al ritorno dimentica di caricare la sveglia e l’indomani, venerdì 22, purtroppo non si alza per tempo; corre a lavoro e, in effetti, nota che l’auto paterna è ancora lì ma, a quel punto, la chiamata di Laila da la stura agli eventi successivi, col ritrovamento dei corpi e il resto.
Prendiamo questa prima narrazione e vediamo come è stata interpretata al processo (trasmesso da “Un giorno in pretura”), anche attraverso l’ausilio delle testimonianze. Tralasciamo l’ininfluente dichiarazione di una vicina, che alla fine non era nemmeno sicura del giorno preciso e passiamo a quelle cruciali, segnatamente quanto raccontato dalla ventennale governante di famiglia, Anna Giammattei: la signora, il 2 aprile se ne esce in una intervista a “Il Messaggero” con dichiarazioni che, di fatto, stringono già il figlio della coppia uccisa verso un cul de sac. La donna fa sapere che la mattina del 21 marzo aveva telefonato a casa Gabriele per annunciare che un imprevisto l’avrebbe costretta ad assentarsi per due giorni, ma il telefono squillava invano; così fu anche il venerdì, di talché ella pensò che fossero tutti andati a Camerino a celebrare la laurea di Aral. Segue un altro teste, la responsabile del centro dove Aral prestava il servizio civile, la quale racconta di un ragazzo inappuntabile sul lavoro, ma che, quella specifica mattina, tendeva ad assopirsi. Qualche ricerca, e salta fuori la verità: Aral avrebbe in realtà sostenuto l’ultimo esame nel dicembre 1999 e non aveva rinnovato l’iscrizione all’università, facendo però credere ai genitori di essere prossimo al conseguimento del titolo, anzi indicando addirittura le date e le tappe di questa marcia trionfale, che il babbo puntigliosamente appuntava sulla propria agenda, compresi i versamenti sul conto corrente dell’ateneo.
Seguono le intercettazioni telefoniche e ambientali, queste ultime anche sull’auto che Laila e il marito hanno noleggiato, una volta precipitatisi a Roma. Il cognato Giacomo, da quanto si è potuto vedere in televisione, già butta lì qualche allusione, soprattutto con la propria madre. Tuttavia da fiducia al cognatino e lo ospita a Milano, evidentemente su pressione della moglie, gli trova un lavoro e tollera i suoi isterismi; ma appare ormai a corto di pazienza quando Aral lascia il lavoro che non gradisce e accusa tutti di scarsa sensibilità verso chi, come lui, ha perduto da poco e tragicamente i genitori. In realtà Giacomo e la mamma livornese affossano definitivamente Aral, parlando dei sospetti su di lui e definendolo “disturbato”.
Tesi colpevolista: la sera del 20 marzo 2002 Aral è stretto in un imbuto. Non ha più scuse, sa che da lui ci si aspetta la laurea da un giorno all’altro, forse i genitori gli chiedono conto per organizzare il viaggio a Camerino o perfino una festa, e lui li asseconda; versa il sonnifero nella minestra, ovvero propone un brindisi col limoncello, accettato dalle vittime che nulla sospettano, probabilmente si conversa sui giorni prossimi venturi.
I due si avviano verso la propria camera da letto e iniziano a spogliarsi ma, quando sono a metà dell’operazione, perdono i sensi. A quel punto arriva Aral, che li sigilla e li lascia spirare nel buio dei sacchi, forse facendo un po’ più forza su di lei, in quanto si trova un’orma parziale di scarpa ginnica (compatibile con quelle del ragazzo) sul fianco destro della donna. In quel mentre arriva una telefonata dal circolo del tennis, per avvisarlo dell’annullamento di una partita prevista, ma ovviamente lui non può rispondere, perché intento al suo tragico gesto; lo farà alla seconda telefonata, verso le dieci e mezzo. Il giorno dopo, stravolto, dormicchia in servizio e, sempre in preda allo stordimento, va al circolo del tennis, dimenticandosi dell’avvertimento a non presentarsi, della sera prima, così resta un poco a guardare i campi.
Il giovane torna a casa e poco importa se essa è in silenzio, perfettamente pulita e ordinata (a parte la pentola di minestra, non lavata, sul fornello). Lui sa bene il perché: ha provveduto a pulire, e la lavastoviglie risulta spenta in automatico dopo il programma di lavaggio, ma Elena non avrebbe mai dimenticato la pentola sporca. Aral lascia sul tavolo della cucina un biglietto “Sono a cena, torno tardi”, e in effetti ci va, come nulla fosse. In realtà, nelle sere Aral non si limita a dormire, ma, come da perizia sul PC, visita siti pornografici, forse per scaricare la tensione. Non si trovano impronte sui sacchi perché egli le ha rimosse; d’altro canto, seppure se ne rilevassero negli altri ambienti, sarebbe ovvio, visto che lui era spesso di passaggio dai suoi. Inoltre egli aveva acquistato quel giorno un boccettino del farmaco. Agire di sera gli ha dato tutto il tempo per sistemate la scena a dovere, fin troppo.
Tesi innocentista: ovvio che Aral avesse sonno, poiché prendeva il sonnifero e quella notte aveva anche dormito con qualche disturbo. Normale che la mattina presto sia filato a lavoro senza badare ad altro, nel presupposto che i genitori dormissero ancora. Esce dall’esterno e non fa caso all’auto di papà ancora parcheggiata. La Giammattei potrebbe non raccontarla giusta, in quanto non dice subito ciò che pensa a chi la interroga, ma va prima a “cantare” con la stampa; e davvero, con una semplice telefonata, la donna poteva permettersi un’assenza di due giorni, a ridosso del week end, senza ottenere un formale beneplacito dei datori di lavoro? E di più: Aral non poteva sapere di quelle ferie improvvise, pertanto non avrebbe azzardato un simile gesto col rischio di doverlo giustificare alla domestica già poche ore dopo.
Maria Elena era astemia, eccezion fatta per qualche brindisi nelle ricorrenze, in cui si limitava a un sorso più apparente che reale: difficilmente avrebbe accettato di bersi un limoncello. Inoltre nessuno ricorda il condannato comprare sacchi e scotch. La famiglia aveva problemi economici. Gaspare teneva un preservativo nella giacca. Il movente è debole: Aral aveva esitato a confessare la verità proprio per non aggravare l’ansia dei genitori, soprattutto dell’adorata mamma, afflitta da problemi di salute. Il piano omicidiario è diabolico, frutto di una pianificazione da killer professionisti.
Prima di esprimere dubbi e porre domande, sentiamo un parere su questo famoso medicinale Minias: “… Il fatto che i mega assuntori preferiscano le gocce, si spiega poi col fatto che esse hanno uno squisito odore-sapore, intensificato dalla presenza di alcool; l’alcol, col suo profumo, è già evocativo di stati euforici ed obliosi ben noti a tutti, e questo, unito alla squisita aromatizzazione del preparato, rende tali gocce assai appetitose, anche psicologicamente. Va inoltre considerato che in una bottiglietta di Minias gocce c’è un quantitativo non trascurabile di alcool e quindi il suo effetto non è solo psicologico: una bottiglietta di Minias contiene il quantitativo d’alcol presente in circa 200 ml di vino o mezzo litro di birra…Minias che tante vite ha rovinato e rovinerà. Se un governo permette che un’industria faccia tale pubblicità ad un prodotto “tossico” pur sapendo quanto è pericoloso per la salute dei cittadini, è proprio vero che oggi chi governa l’europa occidentale non sono i primi ministri ma le grandi industrie multinazionali, le quali guardano solo ai propri abietti interessi economici e non certo al bene dell’umanità. – angelomercuri.it, 2 agosto 2019.
Orbene, iniziamo proprio da qui. Abbiamo ascoltato pareri medici, ma questa valutazione del farmaco ci colpisce particolarmente. Forse che non c’era bisogno di bere alcol, per rinvenirlo nel sangue, visto che il Minias già lo conteneva? E se è stato detto più volte che Elena lo assumeva, nulla sappiamo di Gaspare, però anch’egli presentava questo benedetto sonnifero nel sangue: Aral non parla mai del papà come aduso ai sonniferi, solo della madre, e dunque? E ancora: come sappiamo del limoncello? C’era una bottiglia in casa, dei bicchierini ad hoc, magari ripuliti e asciugati da poco? Mistero.
Dove mangiava Aral? Non passava da casa per arraffare uno spuntino, come avrebbe fatto qualunque figlio di famiglia? Il suo monolocale era collegato con la casa parentale da una scala: si doveva pur avvertire qualche rumore o, di converso, notare un silenzio innaturale, senza né televisione né conversazioni, né qualche rumore tipico di chi “spiccia casa”: il giovane non aveva notato l’assenza della governante? A proposito di quest’ultima: va bene che nel 2002 si contavano ancora molte persone senza cellulare, ma se davvero uno stringente problema familiare l’aveva costretta a dare forfait, possibile che non potesse avvertire almeno Aral, che non disponesse del numero del suo portatile? Così libera di presentarsi o meno, era la Giammattei? E davvero i Gabriele non l’avrebbero avvertita di una loro trasferta a Camerino? Visto il ventennale servizio e l’affetto che la stessa colf dichiarava esserci tra loro, ci si sarebbe attesi forse perfino l’invito ai festeggiamenti.
Gli altri misteri. Il giovedì 21 marzo risulta un passaggio di telefonate tra un’utenza presuntivamente collegata ai servizi segreti e Aral, ma il processo non ha chiarito il perché. Tanto ci traghetta a certi articoli del noto avvocato ed esperto di esoterismo Paolo Franceschetti, che ha più volte espresso scetticismo per le tesi ufficiali che condannano i colpevoli. Ma pure, ci porta a riflettere su certe dichiarazioni di Aral, che ha insinuato di rapporti tra suo padre e la banda della Magliana e denuncia la sottrazione di una agenda verde di Gaspare (che secondo i colpevolisti, potrebbe ben aver sottratto lui, per ovvie ragioni).
Mettere a mezzo i birbaccioni più famosi di Roma funziona in ogni caso, ma potremmo essere più realisti del re e più “Franceschetti” di quanto non sia l’avvocato stesso: esisteva una banda, o parliamo di un brand che nasconde altre ramificazioni, peraltro già in parte smascherate dai processi? E se pure nei primi anni duemila, pur mutilata, l’abietta compagine di criminali ancora avesse governato la capitale, Gaspare l’onesto, con la sua devota moglie, davvero aveva a che farci? Il mondo delle aste può essere pericoloso, ma fino a quel momento il dottor Gabriele ci si era mosso bene. E che professionisti abili: invece di sparare, o al limite strozzare i malcapitati, così come li trovano, li fanno spogliare all’unisono, perdono tempo a impacchettarli, poi li lasciano lì. Di solito non si ritrova tanta premura, in questo genere di criminali, col rischio poi del ritorno del figlio da un momento all’altro.
E il famoso preservativo nella tasca di Gaspare? Non si capisce in che modo esso potrebbe rappresentare un elemento a favore dell’innocenza, casomai di attenzione e protezione verso la compagna non più giovane. Non esiste solo lo scopo di contraccezione, come tutti sappiamo.
Uno dei difensori di Aral, l’avvocato Luigi Di Majo, già molto presente in televisione come conduttore di Chi l’ha visto, giudice di Forum e altro ancora, fa notare che la condizione di studente fuori corso è molto comune tra i giovani italiani, e qui chiuderemmo il cerchio.
Come è possibile ingannare i genitori, e, nel caso di specie, non due analfabeti, ma professionisti che conoscono il mondo, e far loro credere in una laurea che è ben di là da venire? Perché poi un ragazzo romano andava a studiare a Camerino? Spesso i giovani utilizzano l’Università come parcheggio, ma i genitori lo sanno, nella maggior parte dei casi: e nei già libertari anni duemila nemmeno il severo Gaspare avrebbe rimproverato più che tanto il figliolo, che avrebbe goduto dello scudo materno senza alcun dubbio.
Infine, cos’ è oggi l’Università? Serve davvero andarci, o le realtà virtuali inchioderanno tutti on line e i genitori potranno scoprire, in tempo reale, eventuali ribalderie di un figlio manigoldo?
Ultime notizie su Aral Gabriele: “Uccise i genitori Ottiene un risarcimento per detenzione inumana”. Il Tirreno, 26 luglio 2018