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Società

Beatles, ologrammi

Se a tanti giovani ormai il nome Beatles dice poco, nulla di strano: il loro ultimo successo data da più di mezzo secolo fa, due componenti sono scomparsi da un pezzo, i due rimasti sono sull’ottantina. Tuttavia, dal punto di vista storico e sociale, questo nome ancora risuona.

Il Regno Unito non aveva mai brillato musicalmente, fino alla seconda guerra mondiale, a parte quei brani celtici e scottish, più le ballate irlandesi col piedino, che all’epoca interessavano al massimo nel filone antropologico, né più né meno che come i tamburi africani.

Però gli USA esportavano rock e blues a manetta, miscelando il tutto con le sonorità afroamericane che, invero, con il continente nero hanno poco a che fare. Il nuovo padrone del mondo parlava inglese e, per una volta, l’ex colonizzato ebbe la meglio sul colonizzatore e ne fu emulato, con gran godimento di entrambi.

Fino agli anni sessanta la lingua d’eccellenza era il francese; il sorpasso anglosassone però era nell’aria, e il colpo di grazia arrivò appunto dal mercato musicale. Improvvisamente, nelle festicciole casalinghe dove stavano facendo capolino registratori e mangiacassette, le ragazzine vestivano in kilt e twin set, i giovanottelli portavano i ciuffi da teppista d’angiporto britannico. I genitori assistevano impotenti, i nonni scuotevano il capo: dov’era finito il bel canto?

Da qualche parte stava anch’esso, ma erano tutti troppo impegnati a belare “yeah yeah, uoh uoh, oh baby”, a imitare i belli e dannati d’oltre manica, ora in rincorsa con il mercato d’oltreoceano: chi era venuto prima, chi si sarebbe aggiudicato il trono di primo del mondo?

Ora è facile ridere, o giocare a fare i fenomeni pretendendo di individuare testi satanici e allusioni alle droghe, ma allora, contava solo ballare cheek to cheek al suono di Yesterday.

Ci sganciamo dall’inglesume in sé e guardiamo ai Fab Four di Liverpool: faccette sbiadite di popolani d’Albione, che a un certo punto diventano star, e con quattro brani in croce: perché, a ben guardare, molto del loro repertorio resta semisconosciuto fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori e si ricordano sempre gli stessi pezzi.

Davvero una manciata di ragazzotti (all’inizio c’era il precocemente scomparso Stu Stutcliffe, mentre il primo batterista fu Pete Best) presi dalla strada, qualcuno con storie familiari sballate come Lennon, possono assurgere a rango di Beethoven? Per quanto si resti in una cantina a provare e provare, il trampolino arriva sempre da strategie di marketing ben studiate, nulla è lasciato al caso.

I Beatles fecero pochi tour, sfiatati com’erano, sostanzialmente espressione da studio, e non riscossero nemmeno sempre quel gran successo: in Italia non vennero travolti dalla folla, a Genova andò a sentirli un gruppo sparuto. Forse, qualcosa di meglio arrivò negli anglicizzati paesi del nord Europa, poi c’è il famoso concerto a New York con le ragazzine che si strappano i capelli.

Erano dunque finti i Beatles? Certo che no, esistevano. Una volta, per una serie di calcoli tra l’esoterico e l’energetico, Yoko Ono fece imbarcare il marito e se stessa in prima classe Alitalia, chissà se esiste ancora qualcuno che se lo ricorda. Insinuiamo forse che John sia stato assassinato da oscuri poteri? Ce ne guardiamo bene. Abbiamo il dubbio che quei “dietro le quinte” delle registrazioni, con Ringo che sbadiglia, McCartney e Yoko che si beccano, Harrison che aspetta paziente, siano dei reality? Dio ce ne scampi.

Ma guardate, in poche righe, quante parole inglesi non siamo riusciti a evitare.

Carmen Gueye