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L’inchiesta: cappelli e Identità. E noi quale cappello vogliamo indossare?

Uno degli elementi che caratterizza il mondo di oggi è lo sviluppo e l’ascesa dell’indigenismo, cioè il ritorno di culture antiche e tipiche che, sotto l’effetto della globalizzazione, cercano la loro storia e vogliono riaffermarsi nelle loro tradizioni. Questo indigenismo, questo ritorno alle tradizioni locali, è evidente ovunque, sia in America Latina, Africa e Asia ma anche in Europa.

Tuttavia, ci sono oggetti che fissano le impostazioni cultura e la associano a luoghi e identità specifici. Ciò vale in particolare per la gastronomia, la musica e l’abbigliamento, che indicano da dove provengono le persone, a cosa si riferiscono, a quale cultura appartengono. Questi tre oggetti, cibo, musica, abbigliamento, sono sia molto tipici che allo stesso tempo frutto di scambi e miscele, a volte con culture molto lontane.

Nel movimento di indigenizzazione a cui stiamo assistendo, è curioso vedere abiti presentati come molto tipici in realtà di origine completamente diversa, come nel caso di copricapo e cappelli.

Il «melone» indiano

Quando Evo Moralès ha assunto la presidenza della Bolivia nel 2006, ha concentrato la sua politica sull’indigenismo e sulla difesa dei popoli precolombiano. Ciò è particolarmente evidente nell’uso di abiti tradizionali, contrassegnati a casa da una lunga giacca ricamata.

In Bolivia, molte donne indiane indossano un cappello a bombetta, che è sia molto tradizionale nel loro vestito che allo stesso tempo molto sorprendente poiché questo cappello non è indiano poiché è originario dell’Inghilterra.

È difficile sapere perché questi popoli hanno adottato il melone mentre le leggende si intrecciano. La storia ufficiale e riconosciuta dice che gli ingegneri inglesi sarebbero venuti nel 19° secolo per creare una linea ferroviaria nelle Ande. Copie del cappello furono lasciate lì, rapidamente adottate da donne indiane.

È vero che il melone ha il vantaggio di essere robusto e resistente poiché è stato progettato dal cappellaio Thomas Bowler nel 1849 per equipaggiare i guardacaccia di Edward Coke. Ecco come un tipico cappello inglese è diventato un simbolo culturale per gli indiani boliviani. Le guide turistiche sono piene di foto in cui vediamo queste donne indiane negli altipiani della Cordigliera, il loro cappello a bombetta sulle loro teste, testimone della loro appartenenza nazionale. Curiosità della storia: il melone è associato sia all’Inghilterra che agli ippodromi dove è ancora indossato e agli indiani boliviani.

Il cappello greco degli Afghani

Nel 2001, dopo gli attacchi dell’11 settembre, l’attenzione globale si concentrò sull’Afghanistan, sulle sue profonde valli e sui diversi popoli. Il comandante Massoud era la figura della resistenza ai talebani. Soprannominato il “Leone del Pandjchir” dal nome della Valle del Pandjchir dove combatté e respinse i sovietici. Massoud fu uno dei capi Pashtun che si opponeva sia ai sovietici che ai talebani (gli studenti delle scuole coraniche).

Con il suo assassinio, il 9 settembre 2001, da parte di due tunisini, membri della Fratellanza Musulmana, che venivano di Bruxelles fingendosi giornalisti, aprì la porta a un controllo più rigoroso dell’Afghanistan da parte dei talebani e di Osama Bin Laden. Massoud divenne l’antitesi dei talebani e il suo assassinio gli diede la statura di un eroe. Indossare il famoso pakol, un berretto di lana color beige sabbia, aiutò a far rendere popolare questo copricapo in Occidente. Durante l’autunno-inverno 2001 abbiamo visto molte persone a Parigi e nelle capitali europee portare il pakol come segno di tributo e gratitudine a Massoud. Indossare questo copricapo era un modo per rivendicare il sostegno alla lotta del Leone del Pandjchir e testimoniare l’opposizione ai talebani, che la coalizione occidentale stava combattendo.

Il tipico cappello afghano, quello di Massoud e dei suoi uomini, divenne così un simbolo di identità e riconoscimento nelle capitali europee. Ma poiché la storia è sempre “costruzione e deviazione”, abbiamo visto anche molte donne indossare questo copricapo anche se è un cappello da uomo che non è invece indossato dalle donne in Afghanistan. E per una buona ragione, questo cappello è quello dei soldati e più precisamente dei soldati macedoni di Alessandro.

Lungi dall’essere un cappello afghano nelle sue origini, il pakol è l’erede della causia macedone. La causia è un berretto indossato dal monarca e dai soldati della sua stretta guardia. È raffigurato su statuette e murales, che copre le teste dei soldati e del loro leader. Gli eserciti macedoni, sotto la guida di Alessandro Magno e dei suoi successori, si trovavano in Afghanistan dove formarono la civiltà greco-battriana. Il Museo Guimet di Parigi ha statue di Buddha con caratteristiche europee e dipinti decorati con facce bionde dagli occhi leggeri. I Greci conquistarono e trasmetterono l’ellenismo in queste valli asiatiche, motivo per cui l’apostolo Tommaso vi portò l’evangelizzazione nei primi giorni del cristianesimo, fino all’India. Di questa traccia greca rimane il loro cappello, adottato dall’élite locali come simbolo di adesione e assimilazione. Indossare il copricapo dei soldati e dei re dei macedoni era un modo per essere greci come i greci.

I talebani, quindi, non hanno commesso errori, vietando l’uso del pakol quando governavano l’Afghanistan con la motivazione che il cappello era straniero e non islamico. Così proprio come hanno fatto distruggere i Buddha di Bamyan, hanno rimosso il pakol dalle teste degli afghani. Indossare il pakol, per Massoud e i suoi uomini, era quindi un vero segno di resistenza alla politica talebana, senza sapere, forse, che erano così imparentati con Alessandro e i Greci.

L’arrivo del pakol per le strade di Parigi nell’autunno del 2001 è stato quindi una curiosa inversione della storia. L’Occidente, che non adottò mai questo copricapo greco, si trovò a indossarlo come simbolo di Massoud e delle sue lotte. Così facendo, inconsapevolmente, la moda di Saint-Germain-des-Prés si era ricollegata ad Alessandro ed Ellenismo.

Cappelli vietati, cappelli rivendicati

Il Fez

Quando Mustafa Kemal prese il controllo della nuova Turchia, volle ancorare il suo paese all’Occidente per entrare nella modernità. Il suo rifiuto dell’antico Islam andò di pari passo con il divieto del costume tradizionale turco e del fez. Questo cappello conico troncato, in feltro rosso adornato con una ghianda nera chiamata anche tarbouche in arabo.

Era indossato da greci, armeni, albanesi e turchi, facendosi il cappello tradizionale dei Balcani e del Levante. Ataturk ne proibì l’uso e per indossare il cappello occidentale: cappello a cilindro, melone o homburg. Anche in questo caso, l’uso di un cappello dà un’indicazione non solo di politica, ma anche di identità e simbolismo dell’azione politica intrapresa.

Il Fez e camicia nera

In Italia i dirigenti fascisti, compreso Mussolini, avevano adottato la divisa militare con camicia nera e il fez come copricapo.

Il fez era il copricapo degli Arditi, un corpo costituito durante la guerra che ebbe un legame con la spedizione di Fiume e rappresentò un modello per il primo fascismo. Mentre il nero era il colore preferito dagli anarchici e dagli anarcosindacalisti, anch’essi imparentati per certi aspetti con i Fasci di combattimento.

Oggi non rimane molto di questi cappelli tradizionali e identitari, uomini e donne che vanno capelli al vento per strada. Rimane il berretto da baseball indossato dai giocatori di basket e dai rapper, un tempo indossato a testa in giù e ora di lato, la cui forma del copricapo ha continuato a crescere. Rapper e giocatori NBA si identificano con la stessa cultura e lotta politica indossando questo berretto.

Un po’ fuori moda, ma molto popolare negli anni 1990-2000, il keffieh, indossato in omaggio a Yasser Arafat e ai palestinesi, è ora caduto in disuso.

La barretina catalana

Salvador Dali fece scalpore quando ando’ a New York indossando la barretina, un lungo berretto di lana rosso adornato con un edean nero alla sua base. La “barretina” é il copricapo tipico della Catalogna, indossato in particolare dai marinai di Barcellona. Si trova in molte città del Mediterraneo settentrionale: Valencia, Corsica, Sicilia e Napoli, dove la guardia municipale continua a indossarlo. Coprendo la testa con questo cappello nella capitale dell’arte americana contemporanea, Dali non portava solo la provocazione provinciale, ma segnò anche il suo attaccamento alla sua terra e alla sua regione d’origine, mentre visitava la città, simbolo della globalizzazione e del superamento di culture e confini.

Il basco

Lo hanno indossato gruppi armati, attori e bohemien, è entrato in crisi nei primi anni Duemila.

Simbolo di Parigi, di artisti e rivoluzionari, indossato da Picasso, Che Guevara, Hemingway, Faye Dunaway e Lady Diana, da decine di famosi e centinaia di migliaia di collegiali e operai, il basco è uno dei cappelli più famosi e riconoscibili del mondo, tornato di moda più e più volte sempre con un nuovo significato.

Il basco è un cappello di lana coi bordi che si stringono sul capo e il corpo un po’ floscio, portato spesso inclinato di lato.

In molti paesi viene considerato un tipico copricapo dei Paesi Baschi – in Francia lo chiamano béret basque, in Finlandia baskeri –, dove viene invece chiamato txapela o boneta. La parola béret – da cui l’inglese beret, con cui si indica il basco, documentata per la prima volta nel 1835 – viene dal latino birretum e da bearnais berret, che indicava un copricapo di lana indossato dai contadini.

Per quanto l’attestazione sia recente, un berretto simile al basco era già diffuso nell’antichità e gli archeologi ne hanno trovati di simili nelle tombe dell’Età del bronzo.

Secondo gli storici il basco moderno è l’evoluzione dei due copricapi più diffusi nell’Antica Grecia, il petaso – a larghe falde, di cuoio, feltro e paglia e usato d’estate – e il pileo – conico, di feltro e cuoio, indossato da chi faceva lavori manuali e da cui si è evoluto lo zucchetto degli ecclesiastici.

Dal 400 d.C. si diffuse in tutta Europa un copricapo tondo e floscio che fino al Tredicesimo secolo aveva forme e dimensioni variabili ma che manteneva come costante il tessuto, cioè il feltro, la lana pressata. Il feltro era utile e diffuso perché molto economico, facile da realizzare e resistente all’acqua. Sulla sua nascita ci sono molte leggende: in Francia la sua invenzione era attribuita a Noè, che lo utilizzò per isolare l’arca dal diluvio, ma si racconta anche che nacque grazie ai pastori che infilavano ciuffi di lana nelle scarpe per tenersi al caldo e che finirono per pressarla scoprendo che era resistente e impermeabile. Per queste sue qualità il feltro e quindi il basco vennero sempre più usati da chi faceva lavori manuali e all’aria aperta, inclusi i pittori e i ritrattisti, come mostrano anche i numerosi autoritratti del pittore olandese Rembrandt.

Fu dalla fine del Settecento che il basco assunse un significato militare e politico: venne prima indossato, blu, dai soldati dell’esercito scozzese e poi, rosso, dai ribelli spagnoli carlisti, gruppi controrivoluzionari e cattolici che nell’Ottocento portarono avanti guerre civili per fermare le riforme liberali della regina Isabella II. In Francia il basco blu venne indossato dagli Alpini mentre dalla Prima guerra mondiale il Royal Tank Regiment, cioè i soldati britannici alla guida dei carri armati, lo portano nero e le forze speciali americane verde, tanto che vengono ancora chiamati Green Berets. Dagli anni Cinquanta si è diffuso come un copricapo militare ed è indossato in molti eserciti e corpi speciali, tra cui Cina, Sri Lanka, Ucraina, Venezuela e anche Italia.

Mentre diventava parte delle divise degli eserciti di mezzo mondo, il basco si diffondeva anche tra i rivoluzionari, come ai tempi dei ribelli carlisti: lo portavano i guerriglieri dell’ETA e gli anarchici italiani che andavano a combattere da volontari nella guerra civile spagnola negli anni Trenta. Fu reso un simbolo rivoluzionario dal leader cubano Fidel Castro e da Ernesto Che Guevara, che lo indossava nero e stellato nella celebre foto di Alberto Korda.

Lo portavano le Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria che negli anni Sessanta e Settanta che si batteva per i diritti degli afroamericani, per contrapporsi ai Green Beret e per ricordare che anche loro erano un esercito. È in loro onore che lo ha indossato la cantante afroamericana Beyoncé nello spettacolo dell’intervallo del Super Bowl, nel febbraio 2016.

Oltre che copricapo politico e rivoluzionario, il baschetto è anche simbolo del mondo dell’arte. Dagli anni Venti del Novecento si diffuse tra pittori, cantanti, scrittori, star del cinema e bohémien (ora hipster): lo portavano abitualmente Ernest Hemingway, Edith Piaf, Lauren Bacall, Marlene Dietriche, Pablo Picasso, Dizzy Gillespie, ed ebbe un gran ritorno negli anni Sessanta e Settanta grazie alla Nouvelle Vague del cinema francese e ad attrici come Audrey Hepbrun, Brigitte Bardot e Catherine Deneuve. Era ormai diventato il simbolo del gusto chic e raffinato di Parigi.

Dato il risveglio delle identità, non sarebbe sorprendente se i vecchi copricapo riemergono e le nuove generazioni si ne approprino visto che gli anziani le abbandonano. Cappelli regionali bretoni, savoiardi o provenzali, berretti, cappelli celtici e russi, cappelli asiatici e africani. Forse il mondo che si sta muovendo verso una maggiore unità e uniformità potrebbe ritrovare diversità e identificazione nel rinnovamento di copricapi e cappelli.

E noi, italiani? o regionali? Quale cappello indosseremo?

Marco Affatigato

Riguardo l'autore

Marco Affatigato

nato il 14 luglio 1956, è uno scrittore e filosofo laureato in Filosofia - Scienze Umane e Esoteriche presso l'Università Marsilio Ficino. È membro di Reporter Sans Frontières, un'organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa.

Nel 1980 la rivista «l’Uomo Qualunque» ha pubblicato suoi interventi come articolista. Negli ultimi anni, ha collaborato regolarmente con la rivista online «Storia Verità» (www.storiaverita.org) dal 2020 al 2023.