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L’opinione: cancel culture o call-out culture. Cos’è e chi sono

La “ Cancel Culture” (che letteralmente vuole dire “cancellare la cultura”) come il Black Lives Matter (BLM, letteralmente “Le Vite Nere Contano”) è una ideologia sostenuta da un movimento attivista internazionale.

La pratica, nata negli Stati Uniti d’America e importata in tutti i paesi occidentali, è quella di denunciare pubblicamente, in vista della loro ostracizzazione, individui, gruppi o istituzioni responsabili di azioni, comportamenti o osservazioni che vengono percepiti come “problematici al politicamente corretto”.

L’espressione inglese “cancel culture” descrive quel fenomeno sociale per cui una persona diviene oggetto di pubbliche manifestazioni di ostilità, dissenso, attacchi denigratori e più in generale forte ostracismo mirato a eliminarne (da qui il nome “cancel culture”) la presenza mediatica dai social media, e di conseguenza a danneggiarne la reputazione anche nel mondo offline.

È una moderna forma di ‘’damnatio memoriae’’ che ha luogo principalmente negli spazi digitali e che ha lo scopo di costituire una punizione sociale amministrata dagli utenti di una piattaforma, in seguito a un comportamento problematico, sbagliato, offensivo o ritenuto illegale messo in atto dalla persona che si decide quindi di cancellare.

Il fenomeno nasce in origine con il nome di “call-out culture”, ovvero la “cultura del richiamare”: un termine meno aggressivo rispetto a “cancellare” che però aveva all’incirca la stessa funzione di richiamare l’attenzione pubblica su un soggetto macchiatosi di una colpa di cui si voleva informare la comunità virtuale, per incitarne la condanna. In questo senso si può affermare che la “cancel culture” sia la versione portata all’estremo della “call-out culture”, una sorta di deriva mainstream che si concentra meno sul condannare la gravità dell’azione commessa e finisce per porsi come unico obiettivo il cancellare la persona colpevole senza se e senza ma, spesso senza nemmeno accertarsi di verificare la fondatezza delle accuse. Il risultato di questa deriva finisce per essere una semplificazione della natura intrinsecamente politica della call-out culture delle origini e diventa in sostanza un accumulo di hashtag denigratori a riassunto della polemica del giorno, destinata a essere dimenticata e rimpiazzata dalla controversia successiva nel giro di un brevissimo lasso temporale.

La natura politica della call-out culture è un punto fondamentale su cui focalizzarsi per capire a fondo il fenomeno e per mettere in chiaro come e perché la deriva che ha preso piede più di recente è controproducente rispetto agli ideali stessi che vi stanno alla base.

La cultura del richiamo e della cancellazione, infatti, nascono come strategia di vigilanza “dal basso”, con lo scopo di esporre e riequilibrare le dinamiche di potere che si celano dietro agli abusi di natura sessista, razzista, religiosa e così via. In sostanza lo scopo è intervenire in massa quando una persona in una posizione di potere attua un comportamento lesivo verso qualcuno che si trova in una posizione più svantaggiata (o verso una minoranza discriminata in generale) in modo da compensare, con un’azione dimostrativa sui social media, al fatto che la persona colpevole ha alte probabilità di rimanere impunita proprio grazie al suo privilegio. In questo senso la call-out culture si fa portavoce di una feroce critica al sistema giudiziario, che troppo spesso riproduce le stesse dinamiche di potere ed è incapace di auto-correggersi e porre rimedio alle proprie falle, o è troppo lento nel farlo.

Si innesca quindi un meccanismo di giustizia popolare che mira ad attaccare il potente per screditarlo e richiamare l’attenzione pubblica sulla gravità delle sue azioni, laddove la cattiva condotta rischia di rimanere impunita.

Il femminismo ha usato spesso questa strategia e il movimento #MeToo ne è un esempio lampante. La campagna mediatica contro Harvey Weinstein e Brett Cavanaugh, per citare fra i tanti i due dei casi più famosi, ma senza dimenticare la più recente contro Gerard Depardieu, si possono infatti leggere da questo punto di vista:

due personaggi in posizioni di grandissimo potere, difficili da perseguire legalmente proprio a causa del loro privilegio e che quindi si è cercato di esporre dal punto di vista mediatico come strategia di compensazione (oltre che per “normalizzare” l’idea di denunciare i propri assalitori, cosa che risulta ancora molto difficile per la maggior parte delle vittime di molestie sessuali).

La necessità di azioni che vadano a scalfire il privilegio di personaggi potenti come i due sopracitati è chiarissima quando si confrontano le loro vicende giudiziarie con un altro famoso caso di cronaca statunitense che è tornato a far parlare di sé di recente grazie al documentario “When they see us”.

La docu-serie di Netflix narra della vicenda di cinque ragazzi minorenni di origine afroamericana e ispanica accusati nel 1989 di aver stuprato e ridotto in fin di vita una ventottenne a Central Park (New York). I cinque furono tenuti in custodia dalla polizia per più di 40 ore senza acqua, cibo e la possibilità riposarsi, e costretti a confessare il crimine senza la presenza di un avvocato o di prove tangibili che dimostrassero la loro colpevolezza. Il loro processo non fu mai riesaminato nonostante i ragazzi si fossero sempre dichiarati innocenti per tutta la durata della loro condanna (ottennero pene dai 6 ai 12 anni di reclusione). Nel 2002 – quando tutti avevano già scontato la pena ma ancora pagavano le conseguenze sociali della gogna mediatica a cui furono esposti – il vero colpevole confessò il crimine, gettando luce sull’enorme ingiustizia di cui i ragazzi erano rimasti vittime a causa della loro posizione sociale e della loro origine etnica. Il fatto che degli adolescenti provenienti da famiglie immigrate abbiano scontato lunghe pene nonostante la loro colpevolezza non fosse supportata da alcuna evidenza, mentre uomini “bianchi” e “ricchi”, all’apice della loro carriera, non abbiano scontato un solo giorno di reclusione malgrado le innumerevoli prove e testimonianze raccolte dall’accusa fa immediatamente capire quanto il sistema giudiziario sia imperfetto e quanto sia importante comunque che esistano meccanismi di reazione.

Tuttavia, anche se la motivazione che sta alla base di queste strategie (ovvero esporre gli squilibri di potere che si celano dietro alle ingiustizie) è legittima, il modo in cui la cancel culture agisce presenta dei problemi etici che è necessario riconoscere.

Questi sono principalmente quattro:

1. Colpevolezza fino a prova contraria

In netto contrasto con il principio di presunzione di innocenza su cui si basa il sistema legislativo moderno e la società democratica tutta, spesso la cancel culture si avventa sul colpevole di turno senza specificare che in molti casi si tratta di presunti colpevoli.

Ovvero non è raro vedere che la condanna “dal basso” si sostituisce completamente al lavoro delle autorità competenti, invece che affiancarlo. Questo, come spiegato, deriva dalla natura politica di questa strategia di accusa, cioè dalla necessità di colpire chi probabilmente non verrà colpito dal sistema giudiziario. Ma, a parere di chi scrive, questo nobile intento non dovrebbe sostituirsi in toto allo Stato di diritto, bensì dovrebbe esplicitarsi come una critica al sistema stesso.

Il punto è che si può allo stesso tempo credere alle vittime e garantire all’accusato il diritto di difendersi e affrontare un giusto processo. È un diritto basilare di ogni cittadino appartenente al sistema democratico moderno e non dovrebbe essere negato a nessuno, specialmente da un movimento che si pone come obiettivo il domandare più giustizia e uguaglianza. Altrimenti si rischia di confondere l’amministrare giustizia con la vendetta, come spesso avviene oggi via i talk-show anche in Italia (canali Mediaset e reti Rai-TV) .

2. Due pesi, una sola misura

Questo è un altro punto fondamentale della critica alla cancel culture, che forse dovrebbe essere la premessa di ogni altra critica.

Call-out e cancel culture sono nati come strumenti politici per compensare forti disequilibri di potere, ma col passare del tempo sono diventati strumenti sempre più mainstream usati per attaccare non solo individui potenti che hanno compiuto atti gravi perseguibili penalmente – come il sopracitato esempio del movimento #MeToo – ma anche per prendere di mira personaggi decisamente minori, colpevoli di condotte che, per quanto possano essere presumibilmente sbagliate e problematiche, non hanno certamente lo stesso peso.

Con questa affermazione intendo semplicemente dire che è necessario capire la diversa gravità dei fatti e mettere in atto una strategia proporzionata ed efficace. E invece gli insulti e le minacce hanno fatto – come sempre – più rumore degli inviti pacati a riflettere. Il problema è che insulti e minacce non sono una strategia efficace per convincere qualcuno a riesaminare il proprio comportamento.

Cancellare qualcuno è davvero una modalità efficace a mostrare che la sua condotta è sbagliata? A parere di chi scrive (e di Cesare Beccaria) no: la pena dovrebbe avere una funziona riabilitativa e rieducativa. Si dovrebbe cercare di punire la persona in modo che essa possa compensare per le azioni negative che ha commesso, concederle occasioni per redimersi. Solo così la società può progredire e migliorarsi, mentre nessuno trae vantaggio dall’eliminazione definitiva di un soggetto.

La cancel culture diventa tossica quando si pone come obiettivo eliminare nel senso letterale del termine una persona, indipendentemente dalla gravità del torto commesso e uno dei problemi principali della deriva mainstream della cancel culture è che tende a semplificare ogni polemica e a buttare tutto nello stesso calderone senza distinguere il peso delle diverse azioni. Questo mettere tutto sullo stesso piano non fa altro che creare confusione e assuefare le persone alla polemica.

3. IL rifiuto di riconoscere i propri errori e quindi il rifiuto delle scuse

Questo discorso si ricollega direttamente a uno dei lati più tossici della cancel culture: il rifiuto delle scuse. Quando si decide che qualcuno deve essere eliminato non è ammesso tornare indietro. Non importa se questa persona, messa di fronte alle critiche, si rende conto di aver sbagliato e chiede scusa o cerca di rimediare con azioni concrete: la sentenza è già stata emessa e non è concesso il pentimento. Questo è uno dei paradossi più grandi, dal momento che lo scopo ultimo di questo meccanismo di reazione dovrebbe essere far capire la gravità del torto commesso. Quando la persona in questione ne prende atto e si dichiara colpevole, scusandosi pubblicamente o consegnandosi alle autorità in base alla portata delle sue azioni, lo scopo è stato raggiunto. Le critiche dovrebbero placarsi e l’imputato dovrebbe essere reintegrato come membro a pieni diritti della società, dal momento che ha fatto tutto ciò che è in suo potere per rimediare al danno (tornare indietro nel tempo è ancora al di sopra delle capacità umane al momento).

Anche nei casi più gravi, come è stato per un attore americano – che non citero’ per rispetto – che ha sempre continuato a dichiararsi innocente per poi nel tribunale essere assolto nonostante la campagna mediatica che lo accusava, fino a fargli perdere l’attività lavotrativa ed oggi ridurlo sul lasctrico, si dovrebbe comunque puntare a educare invece che cancellare. Eliminare un colpevole, sia fisicamente che moralmente, è un’azione limitata al contrastare l’impatto del singolo individuo (oltre che essere eticamente problematica), e una volta conclusa la vicenda in questione se ne può facilmente ripresentare una simile o identica dopo poco. Investire tempo ed energia nell’educare sul perché certe azioni sono sbagliate invece può essere una strategia molto più efficace per creare un vero cambiamento culturale, che abbia un impatto su un numero molto più grande di persone rispetto al singolo colpevole

Un’altra deriva problematica della cancel culture, scaturita sempre dalla convinzione che la colpevolezza è una condizione indelebile che dura per tutta la vita, è la sua applicazione retroattiva. Succede spesso che si vada a indagare quasi morbosamente nel passato social (o semplicemente nel passato personale) di personaggi in vista, per riportarne a galla commenti, foto o dichiarazioni problematiche passate – spesso molto passate – al fine di screditarli nel presente. Anche qui si tratta di una pratica eticamente dubbia perché generalmente le persone cambiano, crescono, si educano e si migliorano con il passare degli anni, e probabilmente ognuno di noi ha detto o fatto qualcosa di discutibile dieci anni fa. Ma su Internet la regola del “chi è senza peccato, scagli la prima pietra” sembra non valere, e le scuse nel presente valgono meno delle colpe commesse a distanza di anni.

4. Gli avvenimenti storici e i suoi personaggi: è giusto cancellare?

La sua “politicizzazione” progressista che l’avvicina, nel modo di fare, ai fondamentalisti islamici con la cancellazione, e non al criticare, della Storia e dei suoi personaggi ha portato il movimento “Cancel Culture” ad allontanarsi dalla sua motivazione politica originaria (ovvero la sua funzione di esporre le dinamiche di potere che si celano dietro episodi gravi di discriminazione e di critica al sistema giudiziario, queste si legittime). Cancellare la cultura come “un soggetto essenziale” diviene un movimento di censura favorito sia dai progressisti che dalle nuove popolazioni di culture musulmane, con l’obiettivo di distruggere l’uomo bianco: quando l’ideologia incontra la demografia, è una sorta di patto “tedesco-sovietico” (l’implantazione per la sostituzione degli indigeni) , una alleanza per distruggere l’avversario comune. Così con la “Cancel Culture” e “BLM” non vengono respinti solo i concetti di Patria, Famiglia, padre, madre o uomo bianco, ora vogliano “distruggerli”, “cancellarli”.

In conclusione: la cancel culture ha ragione di esistere?

In conclusione, di questa riflessione sulla cancel culture è doveroso sottolineare che la critica del fenomeno non deve essere usata come pretesto dietro cui ripararsi da coloro che non sanno stare al passo coi tempi e assumersi la responsabilità del proprio comportamento.

Lamentarsi che “al giorno d’oggi non si possono più fare battute” o “non si può più ridere di niente” ha poco da spartire con una critica ben argomentata e rivela solamente l’incapacità di rendersi conto che le proprie azioni hanno un impatto sul mondo circostante. Si può discutere, anzi è più che doveroso farlo, e criticare la modalità con cui questo messaggio di non accettazione viene recapitato, ma sul contenuto del messaggio a questo punto dovremmo trovarci tutti d’accordo.

Marco Affatigato

Riguardo l'autore

Marco Affatigato

nato il 14 luglio 1956, è uno scrittore e filosofo laureato in Filosofia - Scienze Umane e Esoteriche presso l'Università Marsilio Ficino. È membro di Reporter Sans Frontières, un'organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa.

Nel 1980 la rivista «l’Uomo Qualunque» ha pubblicato suoi interventi come articolista. Negli ultimi anni, ha collaborato regolarmente con la rivista online «Storia Verità» (www.storiaverita.org) dal 2020 al 2023.