Questo articolo affronta un tema particolarmente spinoso e delicato, rivolto agli investitori più esperti. Voglio subito chiarire che la stragrande maggioranza degli investitori, oltre il 90%, non dovrebbe detenere singole azioni nel proprio portafoglio. Investire in titoli individuali richiede una combinazione di competenze tecniche e comportamentali che solo pochissimi possiedono. Pertanto, esorto vivamente i lettori a evitare di selezionare singole azioni per il proprio portafoglio finanziario, poiché le probabilità di subire delusioni sono così elevate da rasentare la certezza.
Detto ciò, desidero proporre una tesi parzialmente in contrasto con quella comunemente accettata, soprattutto nel ristretto mondo della consulenza finanziaria, secondo cui sarebbe impossibile selezionare singoli titoli azionari che performino meglio dell’indice. La tesi prevalente sostiene che la combinazione di azioni presenti nell’indice sia la più efficiente. Se qualcuno riesce a selezionare titoli che superano l’indice per un certo periodo, ciò sarebbe essenzialmente dovuto alla fortuna. Statisticamente, è inevitabile che alcuni facciano meglio e altri peggio, ma non è possibile superare l’indice sistematicamente né prevedere chi lo farà. Se ciò fosse possibile, i fondi a gestione attiva batterebbero l’indice, ma esistono da anni statistiche inconfutabili che dimostrano il contrario. Ergo, selezionare le migliori azioni dall’indice sarebbe impossibile.
È possibile selezionare azioni che superano l’indice?
I mercati finanziari sono sistemi estremamente complessi. Quando si fa un’affermazione che riguarda un sistema complesso nel suo insieme, è molto difficile arrivare a una verità semplice. Ma cosa intendiamo per verità “semplice”? Al grande fisico Niels Bohr è attribuita la seguente citazione: “Esistono due tipi di verità: le verità semplici (o superficiali), il cui opposto è un’assurdità, e le verità complesse (o profonde), il cui opposto è un’altra verità.”
Le verità semplici riguardano cose che possiamo descrivere facilmente nella loro interezza e che sono sufficientemente stabili nel tempo. Ad esempio, se diciamo: “Questa pietra è solida”, affermare il contrario—che la pietra sia morbida o addirittura liquida—è evidentemente assurdo. Questo perché la pietra è un sistema facilmente descrivibile e cambia su scale temporali così lunghe che, per un essere umano, può essere considerata immutabile.
Se invece affermiamo che è impossibile selezionare sistematicamente azioni che, nel complesso, facciano meglio dell’indice, ci confrontiamo con una realtà—i mercati finanziari e l’attività di selezione—difficile da definire con precisione e in continua evoluzione. A un certo livello, questa affermazione è vera, ma a un livello più profondo è vero anche il suo contrario(¹). Anzi, è logicamente necessario che esista un numero sufficiente di investitori che traggano profitto dalla selezione di un ristretto numero di azioni rispetto all’indice. Se così non fosse, gli indici si riempirebbero di azioni di aziende fallimentari o con progetti aziendali assurdi (come spesso accade nei momenti di euforia del mercato, ad esempio in India negli ultimi mesi). In tal caso, battere l’indice diventerebbe estremamente facile escludendo queste aziende chiaramente poco solide.
In altre parole, è fondamentale che esista un certo gruppo di investitori che tentano di battere il mercato selezionando singole azioni, e un altro gruppo che preferisce non farlo, beneficiando di fatto del lavoro dei primi. Questi due gruppi devono mantenere un certo equilibrio: né l’uno né l’altro può scomparire. Più sono gli investitori convinti che il mercato non possa essere battuto (o che non valga la pena provarci), maggiori saranno i profitti di coloro che ci provano. Al contrario, più investitori tenteranno di battere il mercato selezionando singole azioni, minore sarà la convenienza a farlo, e i costi operativi li porteranno a guadagnare meno dell’indice.
In sintesi, è superficiale sia affermare che sia impossibile selezionare azioni che superino l’indice, sia sostenere che si possa farlo applicando qualsiasi metodologia. La verità è più complessa: in teoria è possibile, e in contesti molto specifici può valere la pena tentare, ma dobbiamo essere consapevoli che è estremamente difficile e che la metodologia che ha funzionato in passato potrebbe non funzionare più in futuro.
Perché i fondi a gestione attiva, mediamente, non battono l’indice?
Nonostante i venditori dei fondi comuni d’investimento sostengano il contrario, chiunque non abbia un interesse diretto e abbia studiato a fondo i dati sa bene che la stragrande maggioranza dei fondi a gestione attiva ottiene risultati inferiori alla media del mercato in cui investe. Se consideriamo un arco temporale di un anno, mediamente il 60% dei fondi performa peggio dell’indice e il 40% fa meglio. Estendendo l’orizzonte a 5 anni, la percentuale di fondi che battono l’indice tende a dimezzarsi, scendendo intorno al 20%. Ovviamente, i dati precisi possono variare leggermente a seconda del periodo e della tipologia di fondi analizzati. Più si allunga l’orizzonte temporale, più diminuisce la percentuale di fondi che fanno meglio: oltre i 15 anni, questa percentuale si dimezza ulteriormente, arrivando circa al 10%.
Ma il problema non è solo che sono pochi; la questione cruciale è che non c’è alcuna persistenza nelle loro performance. I fondi che in passato sono stati i migliori tendono statisticamente a fare peggio in futuro. Tra i molti che sono stati i peggiori, la maggioranza continuerà a sottoperformare, e solo una minoranza—impossibile da distinguere in anticipo—farà meglio. In sintesi, investire in fondi a gestione attiva è un’attività statisticamente perdente. È insensato quanto pensare di vincere alla lotteria.
Questo fatto può sembrare in contrasto con quanto espresso nel punto precedente. Se è necessario che una certa fetta di investitori selezioni le azioni migliori per guadagnare, perché i fondi non ci riescono? Ci sono due ordini di ragioni per cui ciò accade: il primo riguarda le difficoltà operative intrinseche, il secondo concerne gli aspetti organizzativi e i conseguenti sistemi di incentivi.
I fondi comuni a gestione attiva non controllano i flussi di entrate e uscite dal fondo stesso. Anche se riconoscono che è un momento eccellente per acquistare, i clienti spaventati ritirano i loro capitali, costringendo i gestori a vendere e facendo esattamente l’opposto di ciò che vorrebbero. Analogamente, quando si rendono conto che i prezzi sono alti, i clienti euforici investono più denaro nei fondi, e i gestori sono obbligati, per regolamento, a investire quei capitali, quindi sono costretti a comprare. Inoltre, a causa delle loro dimensioni, i fondi sono costretti a investire solo in azioni di aziende molto capitalizzate e liquide. Anche se esistessero opportunità in altri segmenti del mercato azionario, non potrebbero investirvi senza influenzare negativamente il prezzo. Questi sono solo due esempi di difficoltà operative che i fondi comuni a gestione attiva affrontano, difficoltà che altri tipi di investitori non hanno.
Vi sono poi una serie di ragioni di natura organizzativa. Lo scopo primario dei fondi a gestione attiva non è far guadagnare il cliente, ma generare profitto per l’azienda che gestisce il fondo. Per raggiungere questo obiettivo, il fondo deve ottenere rendimenti sufficienti a mantenere il maggior quantitativo possibile di masse in gestione. I gestori, a loro volta, non sono incentivati a far guadagnare il fondo nel lungo termine. Sono valutati su orizzonti temporali molto brevi, generalmente con controlli trimestrali e valutazioni annuali; se i risultati sono negativi, rischiano di essere licenziati. Il loro incentivo non è quindi nel selezionare azioni che andranno bene a lungo termine, ma nel massimizzare le probabilità di mantenere il proprio posto di lavoro alla prossima valutazione. Se un gestore crede fermamente in un progetto aziendale ma ritiene che nei prossimi sei mesi il titolo performi male, anche se l’azienda andrà benissimo, tenderà a vendere l’azione.
Con questi presupposti, è ovvio che per loro sia impossibile fare meglio dell’indice, ma questo non vale in assoluto. Fortunatamente, tra gli investitori non ci sono solo i gestori dei fondi comuni a gestione attiva.
Vuoi battere l’indice o guadagnare?
C’è una questione più sofisticata da affrontare su questo argomento. Molti investitori che iniziano a studiare la materia e hanno la fortuna di leggere buoni libri o di trovare informazioni online che li indirizzano verso una gestione indicizzata e tendenzialmente statica, tendono a pensare che battere l’indice sia sinonimo di guadagnare. Ancora una volta, questa è una verità complessa. È necessario approfondire, perché, come accade con tutte le verità complesse, possiamo scoprire che talvolta può essere vero anche il contrario.
In primo luogo, bisogna capire che esistono diversi modi per calcolare i rendimenti. Esprimere una percentuale, come “10% medio annuo”, senza specificare di quale tipo di rendimento stiamo parlando (money weighted o time weighted), significa non comprendere pienamente l’argomento. I benchmark, per definizione, sono calcolati con il metodo time weighted, ma il guadagno dell’investitore è misurato con il metodo money weighted.
In secondo luogo, ogni confronto implica una scelta discutibile e dovrebbe essere supportato da una logica e una narrativa condivise e stabilite prima del confronto stesso. In terzo luogo, l’orizzonte temporale del confronto è determinante. Non c’è dubbio che selezionare azioni che superino l’indice nei prossimi tre o quattro trimestri sia un’attività in cui la componente aleatoria è decisamente preponderante. Se ampliamo l’orizzonte temporale a 5 anni, iniziano a prevalere le logiche di selezione rispetto all’aleatorietà. Più estendiamo l’orizzonte temporale, più incidono, sul risultato finale, non solo le capacità di scelta, ma soprattutto le capacità di gestione nel tempo dell’investimento. Selezionare un’azienda interessante è una parte importante del lavoro, ma non la più determinante. Scegliere le modalità d’ingresso e di uscita (ovvero quando e quanto investire/disinvestire per ogni operazione) è ciò che influisce maggiormente sul risultato finale.
Combinando tutte queste componenti, si comprende come la questione non possa essere ridotta semplicisticamente a “battere l’indice”. L’investitore non sta partecipando a una gara. Il solo mettersi nello stato mentale di competizione crea le premesse per perderla. Guadagnare sufficientemente da un investimento rispetto al rischio assunto è una questione estremamente soggettiva. L’obiettivo non dovrebbe essere “battere l’indice”, cioè qualcosa di esterno all’investitore. Piuttosto, si dovrebbe costruire un piano d’investimento sensato, in grado di adattarsi all’inevitabile incertezza sulle conseguenze delle scelte effettuate. Se il piano è ragionevole e gli aggiustamenti sono appropriati, sarà una conseguenza naturale ottenere guadagni che ricompensino più che adeguatamente i rischi corsi.
In molti casi, confrontandosi su un arco temporale sufficientemente ampio, ci si potrebbe ritrovare ad avere guadagni più elevati rispetto a quelli che si sarebbero ottenuti investendo staticamente in un indice ampiamente diversificato. Ma lo scopo non può e non deve essere battere l’indice. Questo può essere un piacevole effetto collaterale, ma l’investitore deve essere soddisfatto in entrambi i casi, perché il suo obiettivo è raggiungere il guadagno necessario per realizzare i propri scopi personali, ovvero ciò per cui il denaro rappresenta un aiuto nella sua vita e in quella dei propri cari.
Il caso di Palantir: una fortunata coincidenza?
Per molti anni ho scelto di scrivere di finanza personale evitando il tema dei singoli titoli. Ero consapevole—e lo sono tuttora—che si tratta di un argomento delicato, che può generare più fraintendimenti che utilità per i lettori non adeguatamente preparati. Rimango convinto che la grande maggioranza degli investitori possa (e debba) fare a meno di investire in singole azioni. Tuttavia, con il passare degli anni e concentrando la mia attività professionale su clienti con patrimoni plurimilionari, sapendo che i singoli titoli azionari possono svolgere un ruolo molto positivo all’interno di un portafoglio ampiamente diversificato, ho deciso di affrontare l’argomento, cercando sempre di unire al tema della singola azione concetti finanziari di interesse più generale.
Il primo titolo di cui ho scritto pubblicamente è stato Tesla, il 4 febbraio 2020, nell’articolo intitolato:”Cosa può insegnarci la folle corsa di Tesla?” . All’epoca, il titolo valeva circa 50 dollari (considerando i successivi frazionamenti) e oggi vale circa cinque volte tanto. È entrato nell’indice S&P 500, diventando una delle megacap. Torneremo a parlare di Tesla dopo l’evento del 10 ottobre prossimo, perché è un titolo che ha moltissimo da insegnare a un investitore evoluto.
Il secondo titolo di cui ho scritto pubblicamente è stato Palantir, il 14 febbraio 2023, nell’articolo: “CLIAPI 3: cosa c’entra Palantir con l’intelligenza artificiale?”. In realtà, avevo già parlato di questo titolo—così come di altre azioni—in articoli precedenti, ma questo è stato il primo interamente dedicato a Palantir, nel quale ho illustrato la tesi d’investimento.
Come si può vedere dal grafico sottostante, l’azione viaggiava intorno agli 8 dollari e oggi supera i 35 dollari. Anche Palantir è entrata nell’indice S&P 500, sebbene non sia ancora una megacap, ma un’azienda a media capitalizzazione.
Si tratta di due casi fortunati? Ovviamente non si può escludere, ma va detto che non ho dedicato articoli a nessun’altra azienda. Non sono quindi due casi “tra i tanti”. In entrambi, le azioni sono cresciute incredibilmente più dell’indice (da notare: pur non battendolo in diversi anni!). Quando le ho segnalate, non erano nemmeno nell’indice S&P 500, ma entrambe vi sono entrate successivamente.
Cosa accomuna questi due casi? Il fatto che non sono state scelte le azioni in sé, ma il progetto aziendale.
In entrambi i casi, la tesi d’investimento riguardava ciò che l’azienda fa, rispetto a come veniva percepita dal mercato. Nel caso di Palantir, la tesi espressa sottolineava che, all’epoca, Palantir non era considerata un’azienda chiave nel settore dell’intelligenza artificiale perché la maggior parte degli operatori non comprendeva nemmeno cosa facesse. Il concetto di “ontologia” (descritto nell’articolo, per chi volesse approfondire) è ancora oggi sottovalutato e non compreso perfino da chi è investitore nell’azienda, figuriamoci da chi non ha ancora preso in considerazione di investire in Palantir.
Comprendere nel dettaglio cosa fa l’azienda e scegliere quelle che non sono facili da capire, ma che possiedono forti vantaggi competitivi (appunto incompresi) è uno degli aspetti chiave che può portare a performance superiori, neppure comparabili con quelle dell’indice. Ovviamente, ci sono rischi incredibilmente superiori rispetto all’indice, e devono essere considerati molti altri fattori. Uno di questi è la solidità di bilancio: il progetto aziendale richiede tempo per essere realizzato e deve essere finanziato. Se l’azienda non ha sufficiente liquidità per portare avanti il suo progetto, è del tutto inutile disporre di prodotti o tecnologie che forniscono un enorme, ma potenziale, vantaggio competitivo.
Un’altra componente essenziale, spesso la più trascurata perché estremamente qualitativa e quindi di valutazione soggettiva, è la cultura aziendale. Le aziende sono, prima di tutto, un insieme di persone. Le modalità con cui queste persone collaborano possono essere incredibilmente varie. La cultura aziendale di Google è molto diversa, ad esempio, da quella di Palantir, che a sua volta è diversa da quella di Tesla. Le aziende più importanti sviluppano una propria specifica cultura aziendale, ed è questa che determina, in ultima analisi, il successo o il fallimento. Apple, ad esempio, ha una cultura aziendale molto specifica. Ai tempi di Steve Jobs era ancora più marcata rispetto a oggi, ma era così forte che è riuscita comunque a sopravvivere al suo leader, sebbene un po’ diluita. Microsoft aveva una forte cultura aziendale ai tempi di Bill Gates, ma oggi è molto cambiata. In generale, la cultura aziendale è più forte quando ci sono leader molto carismatici. Palantir
ha un CEO, Alex Karp, con una personalità molto spiccata. Inoltre, come azionista di riferimento, ha uno dei migliori investitori in startup viventi, Peter Thiel, con idee molto radicate su come si costruisce e fa crescere un business—idee che si riflettono chiaramente nel modo in cui Palantir è gestita.
Conclusione
L’investimento in singole azioni è fuori dalla portata della maggioranza degli investitori, ma quando le condizioni lo permettono può offrire grandi soddisfazioni. Come per tutte le strategie, è fondamentale partire da una chiara filosofia di scelta. La filosofia che applico personalmente, che ho chiamato “Filosofia del Proprietario”, è descritta in questo articolo: Investimenti finanziari e diversificazione: singoli titoli azionari. Non è, ovviamente, una mia “invenzione”. In questo campo nessuno inventa nulla; si tratta semplicemente di combinare concetti espressi e verificati da altri prima di noi. Se trovate interessanti questi concetti, potete approfondire leggendo anche questo articolo del 2022, in cui citavo Palantir come esempio perfetto di azione da selezionare secondo la Filosofia del Proprietario: L’uso di singole azioni in portafogli ben diversificati.
¹ **Nota:** Uno dei problemi più profondi del pensiero occidentale è l’idea che esista solo la logica aristotelica del “vero o falso, tertium non datur”. Il mondo che ci circonda, e in particolare i mercati finanziari, è un sistema complesso e dinamico, governato da meccanismi non lineari. Ciò significa che un’azione che produce un certo effetto può, se ripetuta in misura maggiore, provocare l’effetto opposto. Altri tipi di logiche, come la logica del paradosso, della contraddizione e della credenza, forniscono spiegazioni più funzionali in molti contesti.
Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio
(Fonte: https://www.aduc.it/articolo/possibile+selezionare+azioni+migliori+caso+palantir_38197.php)