Pensavo a questa nostra «società», a come sia diventata «atomizzata », e alle battaglie “identitarie” in Occidente: se da una parte appaiono come una conquista di libertà, dall’altra cavalcano le contrapposizioni, producendo nuovi “muri” che minano i principi cardine della società. Una “identità” che è divenuta, ritengo, ossessiva in questi ultimi trent’anni, conquistando anche spazio nel dibattito filosofico e politico. Una “proliferazione” di rivendicazioni settoriali e anche di “campagne” volte a difendere le identità ed i diritti di gruppi minoritari, spesso spiegata evocando il ruolo dei nuovi media: i social network.
Ma, secondo me, invece i motivi vanno ricercati altrove e cioè nella risposta che nel corso degli anni ottanta è stata data con la crisi del marxismo quando molti intellettuali, abbandonando la visione di una società divisa in classi non rinunciarono però all’idea che fosse ancor necessario battersi per il superamento delle ingiustizie. Secondo me proprio sono questi intellettuali, “delusi” non dal marxismo ma per la caduta del marxismo, che costruirono una “visione ideologica” di un mondo che promette di porre rimedio non solo ad ogni ingiustizia nella vita, ma ad ogni ingiustizia sulla Terra, con la ‘politica identitaria”.
Di fatto una “politica identitaria” che non punta alla costruzione di grandi soggetti collettivi, ma più semplicemente ad atomizzare la società in diversi gruppi di interesse in base al sesso, alla razza, alle preferenze sessuali, ecc. ecc. con l’effetto primario di esasperare le divisioni esistenti o anche di generarne nuove. La centralità del “discorso politico identitario” lo si ha a partire dagli anni ottanta-novanta con il rilancio delle discriminazioni razziali e, più in generale, alla tendenza a ricercare tracce di discriminazione anche in apparenza neutrali. Ed è in questa logica che si è replicata a proposito dei rapporti tra uomini e donne e poi in relazione alle discriminazioni legate agli orientamenti sessuali e alla stessa determinazione del “genere”, facendone divenire strumento di “lotta politica”.
Ma è questa la logica della “politica identitaria”, frutto di un sistema liberale che garantisce ai singoli diritti e libertà, con rischi di logorare le basi proprio di quel sistema. La “uguaglianza razziale” come i “diritti delle minoranze” e i “diritti delle donne” pur essendo fra i migliori prodotti del liberalismo, come fondamento sono a dir poco destabilizzanti. Sono i cardini di una rivoluzione sociale, che la “politica identitaria” stessa alimenta. al dispetto di alcune rappresentazioni talvolta caricaturali, anche nella discussione filosofica, che portano alla luce eccessi, di paradossi e di autentiche assurdità.
Il grande punto critico, secondo la mia opinione, al fondo della “politica identitaria”, che del resto chiamerei piuttosto “politica dell’identità”, consiste nel ritenere che tutte le richieste di “giustizia sociale” siano tra loro compatibili, che interagiscano tra loro. Secondo me, invece, le cose sono più complesse, anche perché ogni identità implica sempre una “differenziazione”, delle esclusioni, gerarchie di priorità. E tutto ciò implica che persino battaglie contro le discriminazioni producono nuove linee di discriminazione. Per questo, e molti fattori indicatori lo dimostrano, all’interno delle società occidentali le diseguaglianze sono sensibilmente cresciute nel corso degli ultimi trent’anni.
Quindi, in conclusione di questo mio pensiero, la cosa sorprendente non è dunque che invochi più “giustizia sociale” ma bensì la scomparsa dalle rivendicazioni della politica della “questione sociale” che segnò il ventesimo secolo e la non difesa dei diritti acquisiti.
Marco Affatigato