Diciamocelo senza ipocrisie: le parole pronunciate da Papa Leone XIV il 16 maggio 2025 nel suo discorso al Corpo Diplomatico hanno sorpreso – e forse anche destabilizzato – più di un osservatore. In un’epoca in cui ogni posizione sembra dover inseguire il consenso delle minoranze rumorose e l’ideologia dell’inclusività a ogni costo, le affermazioni del Pontefice sembrano quasi fuori tempo massimo. Eppure, proprio per questo, risultano più necessarie che mai.
Il cuore del discorso ruota attorno a un principio tanto semplice quanto ormai eretico per la sensibilità contemporanea: la famiglia, per la Chiesa, è quella fondata sull’unione stabile tra un uomo e una donna. Non c’è spazio per ambiguità, non c’è rincorsa a un linguaggio “neutro” o conciliativo. Il Papa ha parlato chiaro: la famiglia è il nucleo fondativo della società, e ogni tentativo di ridefinirla in nome di una malintesa inclusività rischia di sgretolare proprio quel tessuto sociale che si vorrebbe rafforzare.
Naturalmente, queste parole hanno provocato sconcerto. E non poteva essere altrimenti in un contesto culturale dove l’inclusività è diventata non più un valore, ma un feticcio. Ma è proprio questa mitologia dell’inclusività ad aver prodotto distorsioni sociali profonde: non si tratta più di accogliere l’altro, ma di rinunciare alla propria identità per paura di escludere qualcuno. In nome di questa logica, si arriva perfino a pretendere che la Chiesa cattolica – un’istituzione bimillenaria fondata su dogmi e verità teologiche – debba rinnegare sé stessa per risultare “aperta”.
Il Pontefice, al contrario, ha scelto una strada diversa: quella della verità, anche se scomoda. Ha parlato da pastore, non da politico. E ha rivendicato un principio fondamentale: l’inclusività non può esistere senza l’adesione a un ordine di valori. L’ha fatto anche attraverso un riferimento personale, ricordando che lui stesso è figlio di migranti. Ma l’esperienza migratoria non è, nel suo discorso, un alibi per il relativismo culturale: è semmai la testimonianza che l’integrazione autentica è possibile solo quando si accetta di appartenere a una comunità di destino, di regole, di simboli condivisi.
In questo senso, il Papa sembra recuperare una visione agostiniana della società: l’appartenenza non è mai puramente materiale, ma spirituale. Non basta varcare un confine, ottenere un permesso, rivendicare un diritto: serve l’assunzione di responsabilità nei confronti della comunità che si intende abitare.
E qui vale la pena di chiarire anche un altro aspetto. Non si tratta di discriminare le persone omosessuali, che la Chiesa ha sempre detto di accogliere come figli di Dio. Ma di affermare che l’accoglienza non significa rinunciare alla verità. Come ha detto più volte Benedetto XVI – e come ora sembra riprendere Leone XIV – la carità senza verità è vuota, così come la verità senza carità diventa ideologia. Il punto è che la Chiesa non può farsi dettare l’agenda da lobby, da mode o da narrazioni mediatiche. E ciò vale anche per il tema delle famiglie omogenitoriali: un’accoglienza cristiana non può mai trasformarsi in legittimazione dottrinale.
È in questa chiave che qualcuno ha voluto forzare un parallelo con certe posizioni di Julius Evola, in particolare con la sua idea di “razzismo spirituale”, ossia la visione secondo cui il vero discrimine tra gli uomini non è quello biologico ma culturale e valoriale. Tuttavia, è bene essere precisi: il pensiero di Evola è complesso, a tratti ideologicamente estremo e radicale, e non può essere sovrapposto in modo semplicistico al magistero papale. Certo, l’idea che la vera appartenenza passi dall’interiorizzazione di una gerarchia di valori – più che dalla mera origine o inclinazione personale – ha punti di contatto col pensiero tradizionalista. Ma Papa Leone XIV non sta proponendo un ritorno a forme di selezione spirituale elitaria: sta, più semplicemente, richiamando tutti – fedeli e non – a non confondere l’accoglienza con il cedimento.
Il suo non è un pensiero progressista, né conservatore in senso politico. È piuttosto un pensiero ecclesiale: non si fonda su ideologie secolari ma sulla vocazione eterna della Chiesa ad essere guida morale al di sopra delle mode del tempo. Non è un pensiero populista, né ideologico: è un richiamo all’essenziale. E l’essenziale è che la verità resta tale anche se minoritaria, anche se impopolare, anche se fischiata.
In un tempo in cui tutto sembra doversi piegare al consenso istantaneo, Papa Leone XIV ci ricorda che la Chiesa non è un partito, non è un movimento, non è un’agenzia di relazioni pubbliche. È una voce. E come tutte le voci profetiche, non sempre è comoda, non sempre è acclamata. Ma è necessaria.
Raimondo Frau